martedì 2 settembre 2008

I coriandoli dei miei pensieri

"il numero degli scrittori è grandissimo e va crescendo sempre, perché è il solo mestiere, oltre quello di governare, che la gente osa fare senza averlo imparato" Alphonse Karr

Recentemente ho ricevuto la proposta di scrivere un libro. Qualcuno che lavora nel campo dell'editoria vede in me "grandi potenzialità", ha capito persino su quale genere mi potrei… "lanciare"

Una delle mie passioni nascoste (giustamente) è quella di scrivere. Mi piace scrivere su carta, anche se ultimamente non disdegno la comodità e velocità del computer. Sino a poco tempo fa il destino dei miei pensieri scritti era segnato da una fine crudele, probabilmente meritata. Il rito era il solito: appena finivo di scrivere strappavo il foglio in mille pezzettini. Quei coriandoli incolori dei miei scritti malinconici finivano puntualmente dentro un cestino. Capitava comunque che  riservassi loro una fine più gloriosa, lanciandoli in aria, al mare o in montagna,  perché li portasse via il vento.  Una scena commovente, copiata da chissà quale film.  Ricordo ancora l'ultima volta che lo feci, lasciai la spiaggia con le lacrime agli occhi. No, non per la commozione! Il vento bisbetico cambiò improvvisamente direzione, lanciandomi violentemente un coriandolo contro l'occhio. Ho interpretato il fatto come un messaggio divino, una voce, un sibilo di vento, che m'invitava a smettere, non tanto di lanciare coriandoli fuori stagione, quanto di dar così tanta importanza a ciò che scrivevo.

Ora non riduco più i miei scritti in coriandoli, è un'azione troppo articolata da fare al computer. Se l'umore non è quello giusto, mi limito a non salvare il file oppure a cestinarlo dopo averlo salvato. Scrivo molto meno, pochissimo, su carta quasi più. Eppure mi è rimasta l'abitudine di avere sempre sottomano una matita e un pezzo di carta, che utilizzo puntualmente per gli appunti di lavoro. Già, il lavoro… è lui che assorbe totalmente il mio tempo non lasciando spazio per dedicarmi a queste piccole, futili passioni. O forse sono io che non riesco a ottimizzare al meglio il mio tempo. Credo sia questo il motivo per cui ho iniziato, seppur forzatamente e quasi per gioco, a scrivere due righe (l'intenzione era quella) all'interno delle newsletter Mamopizza. Non nascondo che ho sempre il timore di tediare qualcuno, mi conforta che nessuno sia costretto a leggermi. Che mi si legga o meno personalmente è stata una grande conquista, ho sfatato un tabù che mi perseguitava dall'adolescenza: nessuno poteva leggere le cose che scrivevo.
Dallo scrivere una newsletter gratuita al pubblicare un libro ce ne passa davvero tanto. Confesso che per qualche istante mi sono lasciato trasportare dall'allettante proposta e ho fantasticato: best-seller, ristampe, traduzioni, successo e danaro...…. mi son svegliato nel momento in cui ho sentito di nuovo una voce, ancor più reale in assenza totale di vento: "il tuo libro farà piangere il mondo". Solo allora ho immaginato le copie del mio libro invenduto trasformate in coriandoli lanciati al vento, che finiscono negli occhi dei passanti.

Ringrazio chi ha visto in me un talento nascosto, mi conosco molto bene e ho la fortuna di sapere quali sono i miei limiti. E poi credo fermamente che certi talenti è meglio se restano nascosti. Anche se adoro le sfide non ho potuto che declinare l'offerta. Chissà, magari avrei creato un nuovo business vendendo bustine di coriandoli dei miei pensieri.

02 Settembre 2009

venerdì 1 agosto 2008

Il prezzo dell'entusiasmo

"L'entusiasmo è un vulcano sul cui cratere non cresce mai l'erba della esitazione"
Gibran

In risposta a ciò che ho scritto nella newsletter precedente sono arrivate decine di mail. Tra queste mi ha colpito in modo particolare quella di due ragazze che stanno per vedere realizzato il loro sogno imprenditoriale. E' una lunga mail, dove mi spiegano di aver fatto questa scelta perché per troppo tempo l'unico impiego che sono riuscite a trovare era sottopagato e precario. Mi contestano il fatto di aver descritto in modo negativo il lavoro imprenditoriale e di aver minato la stabilità acquisita in un lungo periodo di preparazione del loro progetto. Mi accusano di aver smorzato il loro entusiasmo e di provare ora un profondo senso di insicurezza e paura. Chiaramente ho risposto direttamente alla loro mail, ma ho ancora qualcosa da aggiungere. Lo farò qua, anche per coloro a cui non ho avuto il tempo di rispondere direttamente. L'insicurezza e la paura sono due elementi fondamentali nel lavoro imprenditoriale, il segreto stà nell'imparare a conviverci, a gestirli a proprio favore. Sono i sentimenti che ci proteggono, che ci aiutano ad evitare di commettere errori troppo grandi, di sbattere il muso troppo forte. Sono il freno dell'entusiasmo, sempre presente, purtroppo a volte il solo presente, negli aspiranti imprenditori. Un buon imprenditore è colui che sa gestire le emozioni e gli umori, che vive la realizzazione e la gestione della sua attività con consapevole passione, senza lasciarsi trasportare da niente e nessuno. Purtroppo pochi nascono imprenditori (io per esempio non sono nato imprenditore) per gli altri ci vorrebbe una formazione completa che, ahimè, non è alla portata di tutti. Chiunque può fare l'imprenditore, è una scelta di facile attuazione. Da giovane pensavo di non esser tagliato per la vita in società, la vivevo con disagio e sofferenza. Amavo stare in solitudine, mi bastava avere una matita, un pezzo di carta e la mia chitarra. Sognavo di passare la mia vita in paesaggi ameni, tra la campagna e la montagna o vicino al mare, sedermi tutte le sere su una pietra ad aspettare il tramonto per osservare, tra il silenzio naturale, le sue infinite e suggestive combinazioni di colori. Appena potevo "scappavo", per stare, anche solo un'ora, a contatto con la natura. Partivo dalla città e non vedevo l'ora di raggiungere la destinazione, trattenendo quasi il respiro per gustarmi appieno, con la massima intensità, l'aria purificatrice. Mi accontentavo di poco: lunghe passeggiate in riva al mare o in mezzo ai boschi al solo rumore del mio respiro, dei miei passi sulle foglie secche e dello sbatter d'ali d'uccelli spaventati. Adoravo raccogliere erbe, fiori e frutti commestibili, cercare anfratti saturi d'umidità e profumi intensi. Mi piaceva poi sdraiarmi esausto al suolo, immobile e con gli occhi chiusi, per sentire ogni più piccolo suono percettibile di ciò che mi circondava, riuscendo a fondermi totalmente in esso. In realtà l'irresistibile richiamo della natura, anche se reale, era piuttosto una forte repulsione verso un sistema, consumistico e superficiale, che non condividevo e disprezzavo, ma ancor di più verso le difficoltà, il sacrificio e il carico di responsabilità troppo elevato che esso comportava. Era il mio modo per evitare responsabilità, per non affrontare la realtà, per svincolarmi da regole e imposizioni. Quando ho capito che non possedevo abilità tali da riuscire ad eludere totalmente doveri ed incombenze, mi sono buttato sulla prima cosa facile da fare, su quello che stupidamente credevo potesse esimermi da oneri e fatiche, l'isola felice dove nessuno poteva dirmi quello che avrei dovuto fare: sono diventato un imprenditore. Non c'è voluto molto per capire che il mondo imprenditoriale non era la tanto agognata isola felice, non era il luogo che credevo, dove approdare per rifuggire dalle difficoltà e responsabilità della vita sociale. E' chiaro che la motivazione che spinge una persona a mettersi in proprio non è sempre uguale e non sempre è dettata da una credenza errata o da una visione superficiale delle cose. Le motivazioni che 25 anni fa mi hanno spinto a fare questo lavoro erano le più sbagliate di questo mondo. Eppure, dopo aver fatto tutti gli errori possibili ed immaginabili, dopo aver toccato il fondo per più di una volta mi ritrovo ancora in piedi a portare avanti le mie attività, pagando errori e avversità. Il problema attuale è che il mercato non permette più di sbagliare, si sono ridotti gli spazi e i margini d'errore, il valore del lavoro è diminuito notevolmente e la concezione che i giovani hanno di esso non prevede difficoltà e sacrificio.
Io amo il mio lavoro, richiede sacrifici e rinunce, ma lo faccio sempre con grande entusiasmo. Non mi pento assolutamente delle scelte sbagliate che sino ad oggi ho fatto. Nel momento in cui le ho fatte evidentemente non ero in grado di fare diversamente. Con la mail precedente non volevo lanciare nessun monito, tantomeno spaventare qualcuno, ho solo descritto come vive chiunque svolga il proprio lavoro con passione e responsabilità. Ho usato una metafora che calzava perfettamente, il racconto della "spada di Damocle" rappresenta l'imprenditore visto erroneamente come colui che vive nell'agiatezza e nella spensieratezza, come esempio invidiato e da emulare a tutti i costi.
Che ognuno porti avanti e coltivi i suoi sogni, io ho il mio, quello di filosofare tra il silenzio della natura. E' ancora un sogno irrealizzabile visto che sono qua tutti i giorni ad arrabattare tra le quattro mura della mia attività. Un sogno a cui aspiro ancora, sempre con lo stesso spirito e fervore, ma con una differente concezione.

giovedì 1 novembre 2007

Pizza & Vino

"Ti sei mai chiesto quanti acini d'uva ci sono in un sorso di vino o quanti chicchi di grano in un tozzo di pane? Conoscendo il cibo capisci il suo valore e ne scopri il vero sapore"

Ho un ricordo forte e piacevole appartenente alla mia infanzia, uno dei pochissimi indelebili: la colazione a casa di mio nonno paterno. Il ricordo visivo è sfuocato, enormemente falsato dal tempo, quello dei sensi è intenso quasi come se lo avessi appena vissuto. Ciò che hanno conservato le mie mani, le mie orecchie, il mio naso, la mia bocca, vale mille volte di più del ricordo degli occhi, loro infatti si limitano a raccontare poche cose: un tavolo in legno in mezzo ad un ampio loggiato (sa lolla), punto d'accesso per altre stanze buie e misteriose, dal soffitto di canne e travi. Da una parte, in un angolo, una montagna di mandorle. Dall'altra il caminetto, sempre acceso e scoppiettante. Un gioco di luci e ombre che si alternavano repentinamente per tutta la lunga stanza.

Se chiudo gli occhi, il ricordo si completa e si riempie di sensazioni: i muri freddi e irregolari, il piano del tavolo di legno ruvido e caldo. Odori e rumori, ogni stagione, anzi ogni mese aveva i suoi: di pioggia, di terra, di sole, di asparago, di olio, di mosto, di grano, d'elicriso... in bocca sento ancora il sapore della colazione. Il tavolo era apparecchiato in modo semplice, essenziale, un tagliere e un coltello. Gli alimenti erano poveri e sostanziosi: Pane, Pecorino, Lardo e l'immancabile bottiglione di Vino. Mio nonno sapeva già che il momento migliore per trasformare il cibo in energia era il primo mattino. Vino e Pane erano beni preziosi, frutto di fatica e sudore, e andavano conservati con cura e consumati con parsimonia, nei modi, nei tempi e nella quantità giusti. I suoi gesti sembravano rozzi, ma in realtà erano semplici, concreti, senza fronzoli: il primo lo rivolgeva alla mescita del Vino nel bicchiere, il mio a metà e poi il suo, pieno quasi all'orlo. Prendeva il grosso Pane, dalla crosta dura e scura sul fondo, e se lo poggiava all'altezza dello sterno tenendolo premuto contro di se con una mano, mentre con l'altra tagliava una fetta, facendo scivolare la lama del coltello verso il petto. Poi il Pecorino e per ultimo il Lardo oppure la Salsiccia. Dietro ogni piccolo gesto si nascondeva un rito e tutto sembrava avere un senso profondo, radicato, tramandato di padre in figlio. Un retaggio che ai miei occhi, appariva senza fine.

La nostra generazione segna una frattura storica, apparentemente definitiva, potenzialmente irreversibile. Dietro di noi, distante solo poche decine d'anni, la linea di confine tra l'uomo legato alla terra e l'uomo che usa la terra. Ci siamo allontanati dalle cose semplici, abbagliati da un modello di vita abbiente, ma palesemente insostenibile. Ci siamo allontanati non solo dalla terra, ma anche dalla fatica, dal lavoro e il gusto delle cose ha un altro senso, un altro valore: meno intenso, meno profondo, meno importante. In questo sistema, ormai collaudato, qualcuno manipola le nostre menti spingendoci a farci credere quello che vuole e farci comprare quello di cui non abbiamo realmente bisogno. Compriamo e mangiamo più per abitudine che per necessità. Una corsa folle verso un consumo sempre più sfrenato, verso un futuro sempre più iniquo e distruttivo, dove ciò che acquistiamo è spesso prodotto sfruttando altri esseri umani e consumando, inquinando, distruggendo il pianeta. Godiamoci questa vita sicura e agiata sinché possiamo ancora permettercela, indignandoci, tra un acquisto e un gossip, del fatto che a poche centinaia di chilometri da noi interi popoli muoiono di fame e di guerra.

Il consumismo ci fornisce innumerevoli informazioni (troppo spesso ingannevoli e fuorvianti) rendendoci ignoranti verso il fondamento della nostra esistenza: l'alimentazione. Ci fa credere d'essere ampiamente informati, mentre, in modo sistematico, ci allontana dai cibi genuini, naturali. Sempre meno si conosce il sapore di un alimento prodotto con le proprie mani, di un frutto raccolto da un'albero, di un ortaggio strappato al terreno. 

Non credo che mio nonno abbia mai ragionato sul fatto che l'abbinamento Vino, Pane e Formaggio fosse quello giusto, giacché l'alternativa era l'acqua delle fonti montane. Resto comunque convinto che davanti a una buona Pizza (altro non è che Pane e Formaggio), anche avendo l’assortimento di bevande attuale, avrebbe scelto sempre e comunque un buon bicchiere di vino, possibilmente fatto in casa.
Per il suo bene e, indissolubilmente, per il bene del mondo.

Antonia e il Lentisco

“Sarò anch'io come il lentischio, che solo per gli umili che ne conoscono il segreto nasconde nelle su...