venerdì 2 ottobre 2009

Piacer figlio d'affanno


"Pene tu spargi a larga mano; il duolo spontaneo sorge: e di piacer, quel tanto che per mostro e miracolo talvolta nasce d'affanno, è gran guadagno"  G. Leopardi




Settembre se n'è andato cedendo dolcemente il passo al mese di ottobre. Mi trovo qua, a respirare aria di stagione incerta, ad osservare il tempo che passa e a cercare invano sensazioni che non proverò più. Cammino per le strade del mio paese, manca qualcosa. Da molti anni a questa parte, non sento più il denso odore di mosto, non vedo più i cancelli dei cortili spalancati, pronti ad accogliere i piccoli automezzi stracarichi d'Uva. Per le strade più nessuna scia di acini schiacciati, caduti durante il trasporto; ora, i grandi camion diretti alle cantine, non ne perdono neanche uno. Mi manca la vendemmia, quella da vedere, da respirare. In questo periodo dell'anno l'aria ne era intrisa. Mi mancano gli odori intensi di quei giorni dai colori tenui, di stagioni  intrecciate. La vendemmia non è più quella sensazione piena e intensa di bambini che corrono e giocano tra i filari, incuranti della presenza insistente di api, vespe, calabroni, forbicine e ragni, mentre gli adulti, curvi sulle piante della vite, raccolgono grappoli. Non è più le sere di tavole imbandite di carne, pane e formaggio,  in cui ci si ritrovava a condividere un traguardo, a misurane i risultati, a scaricare la stanchezza della raccolta e la tensione di un intero anno, ridendo, mangiando e bevendo vino, sino allo stordimento. Questa vendemmia, poetica e passionale, non esiste quasi più; una candela accesa da secoli, ridotta oramai a lumicino. Eppure, almeno per gli interessati, per gli "addetti ai lavori" non è mai stata un gioco: pochi giorni di duro e intenso lavoro che chiamava a raccolta familiari e amici, a suggello di un anno intero di fatica, attese e sacrifici; di ansie e preoccupazioni; di speranze, di umili preghiere bisbigliate prima di addormentarsi, nel silenzioso buio della notte, rivolte al buon Dio perché riconoscesse il giusto merito e concedesse manforte per superare difficoltà e immunità da malattie e grandine. C'era un diffuso sentire comune, un senso di solidarietà genuina e sincera che portava tutti gli abitanti del paese a preoccuparsi per la sorte delle vigne dopo una grandinata o per l'assenza prolungata di piogge. Ora nessuno vuole più avere a che fare con la terra, nessuno vuole più lavorarla. Improvvisamente tutto è diventato difficile, insostenibile. Non conviene più fare il vino in casa: costa troppo e richiede sforzi che gli anziani non possono più sostenere e che le nuove generazioni non vogliono e non sono state educate ad affrontare.

Maledetta malinconia, sempre in agguato, sempre pronta a colpire violentemente i miei sensi per tutte le cose che ho vissuto e che non saranno più. Eppure ho imparato a conoscere il mondo quel tanto che basta per capire la velocità con cui cambia, a sperimentarne direttamente i ritmi forsennati che portano, come la corrente incontrastabile di un immenso fiume, verso un' unica direzione. Mi sento infinitamente stupido a voler ancora credere che il cuore abbia mai avuto un ruolo determinante nello sviluppo della società umana, nella sua evoluzione. Il cammino dell'uomo segue un'altra strada, meno impegnativa e tortuosa: un modello di "benessere a tutti i costi", tecnologicamente avanzato, che porti, a grandi passi, ad un mondo comodo, agiato e sicuro, ma allo stesso tempo, cinico, distaccato e asettico.

Ho abbondantemente superato quella fase d'immaturità che mi portava alla convinzione di riuscire a cambiare ciò che mi stava attorno ed ora assisto, trascinato dalla corrente, ma pur sempre pronto a combattere e a far valere il mio dissenso, all'avvento di un mondo fuori dalla mia misura.
Il sentimento che provo per le cose che non ci sono più ha un'essenza ben più profonda e radicata della semplice malinconia per l'assenza di quelle immagini, di quei suoni e di quegli odori: è una cupa  preoccupazione, un senso di vuoto amaro, dovuto al crescente abbandono della cultura del sacrificio.
Ci stiamo ingannando e inganniamo i nostri figli, educandoli ad avere tutto senza fare niente, seguendo ciecamente istruzioni e modelli di vita dettati da una società consumistica, sminuendo e stravolgendo regole fondamentali come quella della partita doppia, in cui la cotropartita dell'avere non è più il dare, ma il pretendere. Li stiamo proteggendo dalla parte dura e faticosa di questa vita, per evitare che patiscano sofferenze e afflizioni; stiamo insegnando loro ad aggirare gli ostacoli, piuttosto che ad affrontarli e superarli.

Mi chiedo per quanto ancora dobbiamo far credere alle nuove generazioni, con questo modello di vita, che l'epoca a venire sarà ancora più opulenta, facile e comoda da vivere di quella che stiamo vivendo; per quanto ancora dobbiamo far finta di non vedere il male che ci gravita attorno e pensare di esserne immuni; per quanto ancora dobbiamo essere partecipi, a tutti gli effetti, di un sistema globale iniquo, insostenibile, basato sullo sfruttamento incontrollato delle  risorse e degli esseri viventi;  per quanto ancora dobbiamo sottovalutare un'evidente lungo e lento declino, ignorando le avvisaglie di un sistema al tracollo che s'impegna oltre quello che possiede nell'intento di rimandare, purtroppo aggravandolo, un destino ormai segnato.

E ancora mi chiedo come sia possibile che questo modello di vita ci adombri la mente al punto da farci abbassare la guardia, da portarci a dimenticare che: è la paura che rafforza la sicurezza; sono la sofferenza e il sacrificio che ci permettono di apprezzare appieno la vita; è la fame a farci gustare con piacere il cibo; è la fatica a rendere più intenso il riposo; è l'impegno a rendere gratificante ciò che si produce, ciò che si crea. Ho paura che i figli di questa società non saranno uomini temprati e determinati, ma esseri fragili e disorientati che non conoscono il valore delle cose, incapaci non solo di affrontare le battaglie di una vita sempre più difficile, ma di saper usare le sconfitte come esperienza e rafforzamento, ai fini di una pronta e orgogliosa rivincita. Se questo è quanto bisogna pagare per il sogno di una vita più sicura e longeva, è davvero un prezzo troppo alto per le generazioni che verranno, con la certezza che, prima o poi, si trovino ad affrontare un mondo che richiederà indietro tutto ciò che le generazioni passate hanno indebitamente preso.

A mio Zio Mario, baluardo del vino fatto in casa, che non si è mai risparmiato e resiste agli acciacchi di una vita dura, sempre a stretto e intimo contatto con la Madre Terra; a Lui che mi ha insegnato, semplicemente osservandolo lavorare, bere e mangiare, la sacralità di ogni cosa. Perché non diventi privilegio di pochi, conoscere il pieno, autentico e profondo gusto di ciò che ci offre la vita.

venerdì 9 gennaio 2009

Di padre in figlio

















"...che lo vogliamo o meno, noi siamo i nostri genitori"

Finita la scuola avevo a disposizione solo due, tre settimane per godermi le vacanze a tempo pieno. Trascorso quel termine mi portava ogni giorno a lavoro con lui. Io mi svegliavo sempre qualche minuto prima che entrasse in camera per chiamarmi, ma continuavo a far finta di dormire e speravo, pregavo, come se stessero per portarmi al patibolo, in una grazia dell'ultimo istante, in uno di quei numerosissimi atti di pietà e di generosità che contrassegnavano la sua giornata. Mi giravo in tutta fretta, coricato di spalle alla porta, coprendomi sino al viso per paura che scoprisse la mia finzione. Ascoltavo i suoi passi arrivare, la porta aprirsi. La sua grossa mano si poggiava lievemente sulla mia spalla, scuotendola con dolcezza. A quel punto mi restava da giocare l'ultima carta: non rispondere alla chiamata, cercare di intenerirlo facendogli credere di essere ancora immerso in un sonno profondo. La speranza si infrangeva nel momento in cui la sua voce sentenziava la condanna definitiva e inappellabile: "Andiamo!!!". Forse sbagliavo tecnica, magari sarebbe stato sufficiente dirgli: "Papà, oggi non ce la faccio, mi lasci a casa?". Non glielo chiesi mai, forse non avevo mai nemmeno pensato di farlo.

Nonostante il trauma fosse solo iniziale, smorzato prontamente dall'impatto fisico con l'aria carica di salsedine, fresca e penetrante del primo mattino, ogni giorno, per tre anni, si ripeteva la stessa identica storia. Il viaggio in macchina durava circa mezz'ora; arco di tempo nel quale ogni suo tentativo di dialogo cadeva inesorabilmente nel vuoto creato dal mio silenzio. Io mi preoccupavo solamente di dormire ancora un po’, anche se ogni sforzo in questo senso era del tutto vano: il sonno si era già dissolto e i sogni si erano oramai trasformati in pensieri acquerellati, confusi e disordinati, che si fondevano coi colori dell'alba prima, dell'aurora poi e infine dei primi raggi del sole che segnava puntualmente l'arrivo a destinazione.

A lavoro mi erano stati assegnati compiti precisi, sotto l'iniziale sorveglianza di un responsabile. Lo spazio dietro il bancone era piccolo, ma sufficiente per lavorare comodamente in due.
Gli orari del servizio erano sempre gli stessi: colazioni, break di mezza mattina e caffè dopo pranzo. Per il resto della giornata restavo solo: mi occupavo delle pulizie, del riordino, preparavo gli snack e ricaricavo i frigoriferi. Ogni tanto passava a controllare che andasse tutto per il verso giusto, mi rimproverava per ciò che non era stato fatto bene. Poi mi guardava con tenerezza, mi dava una carezza sui cappelli e tornava al suo lavoro; ci separava una grandissima sala mensa, vuota sino all'ora di pranzo.

”Chissà cosa pensava!” mi chiedo costantemente. Forse che avrebbe dovuto lasciarmi a casa a riposare e a divertirmi, che ero troppo piccolo per iniziarmi al lavoro. Forse era stretto da quella morsa, ancora più forte perché di grande responsabilità, che porta a non essere mai sicuri se quello che si sta facendo sia giusto o sbagliato. Combatteva incessantemente, forse inconsapevolmente, contro se stesso, contro la forza oscura dei propri geni che gli imponevano precisi impulsi decisionali per salvaguardare e migliorare la sua stirpe. Combatteva contro il forte richiamo di quell'amore "sbagliato" per i figli, quello che domina le società opulente, quello che porta i genitori ad essere iperprotettivi, a cercare in tutti i modi di non far mancare niente alla propria prole e a sentirsi perennemente in colpa se non si riesce a soddisfarne ogni desiderio. Combatteva, consapevole dell'evoluzione, del mondo che cambiava, contro le proprie credenze e i propri pregiudizi, non conoscendone esattamente contorni e confini. Combatteva la paura di non riuscire a dare la giusta educazione, il giusto indirizzo professionale, la giusta posizione sociale ai suoi ragazzi. Per un uomo che crea da solo e dal niente un piccolo impero, credo sia naturale nutrire attese importanti per i propri figli. Lui, le sue aspettative, le basava sull'importanza del lavoro come elemento determinante nel contesto sociale in cui si vive. Non era solo un fattore genetico: c'era una grossa componente culturale, sentita fortemente da tutti, in quel periodo, che lo portava a mettere sempre il lavoro al di sopra e prima di ogni altra cosa.
Cercava di carpire i segreti dei miei sogni, gelosamente custoditi, nella speranza di aiutarmi a trovare la soluzione per coltivare le mie passioni, per insegnarmi a non mollare mai.

Mio padre era un imprenditore; in realtà, la sua grande passione e vera professione era fare il cuoco. Un cuoco all'antica, figlio di un’ epoca in cui non si sprecava nulla, in cui gli alimenti avevano un valore intrinseco e assoluto in quanto frutto di sacrificio e sudore. Aveva molta fantasia e la capacità di creare con pochi e poveri alimenti delle squisite e sostanziose pietanze. Mio padre scriveva fiumi di parole e anche poesie, senza alcuna pretesa di crederle veramente tali. Annotava pensieri su qualsiasi materiale accogliesse l'inchiostro della sua biro: tovaglioli, fazzolettini, pezzi di cartone strappati alle derrate alimentari, fogli che trovava per il suo cammino, carta igienica. Se gli veniva in mente qualcosa da scrivere, lo faceva senza mettersi il problema su cosa stesse scrivendo, su chi avesse davanti e su quanto fosse importante ciò che stava facendo in quel momento. Da suo padre, su "launeri" del paese (lo stagnaro, mestiere di chi lavorava i metalli), ereditò la passione per il lavoro e il legame forte e indissolubile per la terra e per la natura, che si trasformò poi in amore e desiderio infinito di riavvicinarsi a lei e viverci immerso.

Quel sogno restò solo un sogno, non gli fu concesso di realizzarlo. Se ne andò prima, sicuramente con l'amaro in bocca. Se ne andò prima che si risolvesse in modo naturale quel conflitto generazionale con un figlio "eversivo", così uguale a lui ma così smanioso di apparire diverso. Quell'esperienza sembra non avermi insegnato nulla per evitare che ciò si ripetesse, con le stesse identiche modalità, seppure con variabili differenti, tra me e mio figlio.

Al di là di quello che ci permette di fare la vita, al di là di quanta forza di volontà mettiamo nel portare avanti quello che sentiamo, per cambiare quello che non ci piace, noi, che lo vogliamo o meno, siamo i nostri genitori. Da loro ereditiamo, a volte detestandoli, caratteri somatici, pregi e difetti, modi di fare e passioni. Io mi sono ritrovato a seguire le stesse orme e a coltivare gli stessi interessi che hanno contrassegnato la vita di mio padre e resto ancora sorpreso nel vedere mio figlio attratto dalle stesse passioni che animano il mio essere: la cucina, il disegno, la musica, la scrittura, la lettura, la natura......

Di padre in figlio viene tramandato un libro su cui ci ritroviamo a scrivere, a continuare la storia, lunga migliaia di anni, del nostro ramo genealogico. Un libro che risale agli albori, dove possiamo leggere, quando ci è consentito, solo delle ultime generazioni, perché i contenuti si cancellano man mano che il tempo avanza. Nello stesso libro, dove attualmente scrivo e dove ci sono le pagine, oramai evanescenti, scritte da mio padre, ora scrive anche mio figlio.

Tutto si ripete, spirito e materia, con una sequenza di fatti impressionante e, in questo caso, senza salti generazionali. Per ironia della sorte rivivo, con uno scambio di ruoli, la sofferenza del conflitto con mio padre e pago, giustamente con la stessa moneta, il dolore causatogli. Tutto questo con un forte sentimento di frustrazione e impotenza, per aver fallito per ben due volte la gestione di un rapporto umano fondamentale, quello tra padre e figlio; prima da figlio verso uno splendido padre, ora da padre verso uno splendido figlio.

Antonia e il Lentisco

“Sarò anch'io come il lentischio, che solo per gli umili che ne conoscono il segreto nasconde nelle su...