mercoledì 10 febbraio 2010

Gli spiritelli della mia infanzia

"il male non è soltanto di chi lo fa: è anche di chi, potendo impedire che lo si faccia, non lo impedisce" Tucidide

La piazza principale del paese era, nel mio ricordo di bambino, immensa, si poggiava ai piedi del Monte Linas e la vedevo sempre come un lago sul quale affluivano piccole e grandi strade. Io ero lì, assieme a Giuseppe, aspettavamo un amico per la consueta uscita pomeridiana. Non avevamo un orario o un punto preciso dove incontrarci, eppure, anche senza l'ausilio della tecnologia, ci trovavamo lo stesso: Antonello anche quella volta era spaventosamente in ritardo. Decidemmo allora di attenderlo in un punto più strategico, più comodo, con una visuale più diretta verso la zona da cui sarebbe dovuto arrivare. Ci poggiammo sul bordo della serranda abbassata dell'edicola, a quell'ora ancora chiusa, a parlare, non so di cosa. Mi sono sempre chiesto quali fossero i miei pensieri, i miei argomenti, i miei ragionamenti all'età di dieci anni. Trascorsi pochi minuti, un'ombra improvvisa e fulminea interruppe la carezza dei tiepidi raggi solari che rendevano cosi piacevole quel pomeriggio: non era una nuvola carica d'acqua e di elettricità, ma qualcosa di più minaccioso. Qualcuno ci afferrò con forza per le orecchie, quasi sollevandoci. Sorpresi e terrorizzati dall'improvvisa e inaudita violenza, restammo pietrificati dando la possibilità all'aggressore di spostare la sua presa sui polsi, che sembrava volesse spezzare. La visuale della piazza si restrinse, nell'arco di una frazione di secondo, a uno spazio indefinitamente piccolo, poco più di un metro cubo di terra e aria su cui si poggiavano e muovevano i corpi di tre esseri disperati. Tutto il resto, intorno a me, sparì nel buio più totale, si azzerarono i rumori e gli odori; era come se non esistesse più nulla, più nessuno: il mondo si era fermato. Sollevai gli occhi, probabilmente pieni di lacrime, lentamente, come se, aspettando un colpo finale, volessi implorare clemenza guardando in faccia l'aggressore. Ma le grosse mani continuarono a stringere i polsi, e la violenza aumentò, facendosi anche verbale: "Stavate cercando di aprire le serrande dell'edicola, vi ho colto con le mani nel sacco. Chiamo subito un vigile, vi faccio portare in caserma, passerete la vita in galera!". Un colpo letale sarebbe stata una violenza più indulgente, meno dolorosa. Improvvisamente il forte caldo del polso si attenuò, sentii mollare la presa e la grossa mano mi colpì in pieno volto con una mossa troppo veloce per i miei riflessi confusi. Caddi a terra stordito. Camminai carponi su pietre e cocci per qualche metro, accecato dalla paura, ferendomi mani e ginocchia. Scappai, noncurante della sorte del mio amico, verso casa, senza poi ricordare nulla del tragitto percorso: due chilometri di discesa che attraversava il paese. Corsi, come inseguito da belve feroci, con il cuore in gola, passando di fianco ai luoghi che ogni giorno attiravano la mia attenzione; luoghi misteriosi che destavano, alcuni paure, altri curiosità. Costeggiare il cimitero, quel giorno, sicuramente non mi fece alcun effetto. Solo di fronte a un pericolo concreto e reale ci accorgiamo di quanto siano insussistenti alcune paure della nostra mente. Non incontrai nessuno di conosciuto, forse corsi troppo veloce e mi ritrovai nell'uscio di casa senza sapere come.  Entrai di soppiatto, attento a non farmi notare e solo quando fui dentro la mia stanza mi sentii al sicuro, protetto da sguardi e domande. Mi rannicchiai in un angolo e piansi in silenzio; un pianto di rabbia e impotenza, di dolore e paura, un pianto senza fine che restò, per mia scelta, senza consolazione umana. Non raccontai niente a nessuno, la vergogna mi assaliva al solo pensiero e giustificai le ferite come causa di una caduta in corsa: è questo il disgustoso meccanismo che permette ad abusi e soprusi di restare nascosti e impuniti agevolandone la reiterazione.

La nostra casa, alla periferia del paese, situata allora nella linea di confine con la campagna, la notte sembrava attirasse suoni misteriosi; mio padre cercava di tranquillizzarmi dicendomi che erano solamente lamenti di animali e voci umane trascinate dal vento e amplificati dall'aria fresca e pulita che scivolava a valle dalla  montagna, ma io sapevo che in realtà quei lamenti sinistri appartenevano agli spiriti notturni che vagavano al calare delle tenebre. In quel periodo la notte per me fu croce e delizia: adoravo le stelle, erano sempre straordinariamente luminose, ci trascorrevo delle ore ad osservarle, a volte allungavo la mia piccola mano convinto che riuscissi a toccarle. In casa tutti pensavano che fossi il più coraggioso, ero l'unico che riuscisse, quando serviva qualche provvista, a scendere la notte in cantina senza nessuna paura. Così tutti credevano, in realtà volevo solo dimostrare a mio padre quanto fossi forte, ancora di più di fronte al rifiuto di un fratello maggiore terrorizzato. Cercavo sempre e in tutti i modi di nascondere la mia debolezza, la mia fragilità. Ero irresistibilmente attratto e al tempo stesso terrorizzato dagli spiriti della notte. Eppure un giorno, così come successe con “Selvatik”, un gatto selvatico della campagna vicina che nessuno credeva riuscissi a farmi amico, gli spiritelli della notte, figli degli spiriti cattivi, si avvicinarono a me. Per Selvatik ricordo che ci vollero diversi mesi solo per farlo scendere dal muro dove sempre più frequentemente si affacciava a curiosare ogni mio spostamento. Mio padre mi diceva di lasciar perdere, era un gatto inavvicinabile e sarebbe stato più giusto che stesse nel suo habitat, ma io restavo interi pomeriggi seduto sul cortile con qualcosa da mangiare in mano. Giorno dopo giorno conquistavo qualche centimetro, riducendo sempre di più la distanza che mi separava da lui e la diffidenza che lo separava da me. Succedeva spesso che dovessi ricominciare tutto daccapo perché un piccolo rumore improvviso lo allontanava di parecchi metri, ma i nostri esseri erano oramai destinati ad avvicinarsi e a vivere quello scorcio di vita insieme avendo bisogno l'uno dell'altro. Non ci fu gioia più grande del giorno in cui si avvicinò, odorò il cibo ma non lo mangiò. Non mi permise da subito di toccarlo e non perse mai del tutto la diffidenza intrinseca al suo essere: si avvicinava solo quando ero solo, altrimenti restava ad osservarmi da lontano, sopra il muro alto alcuni metri che separava il mio cortile dal suo mondo. Successe la stessa cosa con gli spiritelli, ogni notte si fermavano a curiosare da oltre il muro. Sembrava che fossero affascinati da me, così come io lo fui da loro. Capita così anche tra esseri umani, ci sono persone che ci attirano, che ci incuriosiscono; a volte veniamo attratti in modo inspiegabile, come se riuscissimo a percepire la loro aura, a volte più semplicemente veniamo conquistati dal loro aspetto, dai loro modi di fare. Chissà dove risiede quella forza misteriosa che attrae due esseri come calamita.
La mia offerta per gli spiritelli non fu il cibo, ma le parole; iniziai raccontando a voce alta le mie storie da bambino che scrivevo nei quaderni di scuola; leggevo talmente assorto che da un giorno all'altro li ritrovai in cerchio intorno a me e, da allora, non ci fu notte, eccetto quando pioveva o tirava vento, che passai senza la loro compagnia.

Quel giorno aspettai con ansia l'oscurità della notte, con la rabbia che mi faceva ribollire il sangue. Fremevo nell'attesa… eccola, finalmente, la tanto agognata notte, dove tutto si trasforma, dove buio e silenzio assumono un enorme potere, dove pensieri e fantasia non hanno limiti: sfondano le pareti limitatorie e scappano, corrono via, espandendosi in ogni direzione senza fare del male a nessuno. Ma per me non era così, io volevo fare male a qualcuno, ogni volta che subivo o assistevo ad un abuso aspettavo quel momento per concretizzare la mia vendetta, contro chiunque perpetuasse violenza su esseri indifesi. A quell'epoca non leggevo ancora i fumetti - quelli che raccontavano le gesta eroiche dei paladini della giustizia - per vendicarmi con la fantasia, calandomi nei loro panni. Era giunta l'ora e la rabbia accumulata aveva raggiunto il massimo livello, spinta in alto dall'insofferenza per non essere riuscito a reagire: non sopportavo di essere rimasto inerme, in balia di un bruto, di un ossesso posseduto da chissà quale demone. Mi coricai nel mio letto, mi misi scrupolosamente in posizione: supino, come se fossi morto. Spalancai gli occhi per non correre il rischio d'esser rapito dal sonno, fissai un punto fermo sul soffitto e chiamai a raccolta i miei amici spiritelli. Non impiegarono tanto ad arrivare. Entrarono in tutta tranquillità, senza fare rumore, timidamente, nonostante fossero immortali e infinitamente potenti. La stanza era buia, forse leggermente illuminata da una frazione di luna. Si posizionarono in cerchio intorno al mio letto. Io riuscivo, in una sorta di percezione extrasensoriale, ad essere tra loro con il mio spirito che, sollevandosi solo con il busto senza mai staccarsi totalmente dal corpo, si sedeva al centro dell'incontro e trasmetteva, senza proferire parola, le immagini dell'accaduto. Alla fine, uno dopo l'altro, gli spiritelli si accomiatavano, in maniera ordinata, attraversando il mio corpo come se volessero vivere più profondamente il dramma, come se volessero raccogliere informazioni più dettagliate. Il mio spirito ricadeva lentamente all'indietro sino a rientrare totalmente all'interno del corpo e mi addormentavo istantaneamente in un sonno profondo, consolatorio e liberatorio.
Il giorno dopo mi svegliavo già con la curiosità di sapere cosa fosse successo, non vedevo l'ora di verificarne il risultato. A scuola non pensavo ad altro; suonata la campanella correvo a casa, pranzavo velocissimo e risalivo verso la piazza. Restai ancora una volta sorpreso. La mia ingenuità non prendeva nemmeno in considerazione che si potesse trattare di una semplice coincidenza: l'edicola era chiusa e restò con le serrande abbassate per ben quattro giorni. Non mi era dato sapere in cosa consistesse l'azione punitiva, ma forse nemmeno mi interessava, oltretutto ero troppo piccolo per cercare di scoprire cosa fosse realmente successo, indagando sulla vita privata altrui. Andai via, mi immagino con le mani nelle tasche, lasciandomi dietro, come un pistolero ferito che vince un duello dopo esser stato colpito con l'inganno, la scena dell'accaduto.
Credo comunque che mi consolasse sapere, ogni volta che i miei occhi assistevano ad un abuso, che ci fosse qualcuno in grado di dare una lezione agli aggressori, vendicando chi non poteva difendersi: piccoli esseri che approcciano alla vita con ingenuità, inconsapevoli delle insidie e dei pericoli che provengono proprio da coloro che vedono, guardandoli con la testa all'insù, dal basso verso l'alto, come i garanti della loro sicurezza capaci di dispensare amore infinito e protezione assoluta.

Gli unici ricordi nitidi e ricorrenti della mia infanzia sono legati ad abusi e soprusi a cui ho assistito impotente, direttamente e indirettamente, in tutti i contesti sociali: nelle strade, nelle scuole, nelle palestre, negli oratori, nelle case. Non sopportavo gli atti di bullismo tra coetanei, questa sorta di prevaricazione violenta mi risultava estranea, inumana e incomprensibile, ma erano per me ancora più assurde, insopportabili ed innaturali, le violenze fisiche e psicologiche di genitori verso i propri figli, o di insegnanti sui loro alunni; erano ancora oscuri, per me, i meccanismi che portavano questi adulti a comportamenti bestiali. E questo “non capire” mi costringeva a provare odio e ostilità nei loro confronti. Solo qualche anno dopo fui assalito dall'idea che quelle persone rappresentavano gli anelli di una catena senza fine, in cui vittime e aggressori sono legati da un destino comune: essere prima vittime degli aggressori per poi diventare a loro volta aggressori di nuove vittime, poiché subire violenza spesso porta a commettere violenza. Ma non sempre va così, ci sono epiloghi ancora più tragici: a volte quella catena si spezza improvvisamente, senza avvisaglia. Non tutti riescono a sopportare il peso di quelle macchie indelebili stampate sull'animo. Ho sempre nel cuore un mio caro amico d'infanzia che iniziò a riversare le terribili violenze subite in casa su piccoli animali che torturava e uccideva. Finì con il commettere lo stesso scempio su se stesso: dopo una vita di sofferenza mise fine alla propria, suicidandosi.
La violenza su un essere vivente che non ha ancora sviluppato le proprie difese è devastante, come un virus sconosciuto che subdolamente penetra all'interno del nostro corpo e attacca, trovando le difese impreparate e creando danni irreversibili. I bambini subiscono gli abusi senza urlare, ma quell'urlo inesploso riecheggia dentro per l'eternità, distruggendo alla base gli elementi fondamentali e fondanti per una vita serena.

Selvatik improvvisamente sparì, sapevo per certo che era stato catturato e mangiato dai vicini di casa: posizionavano sistematicamente le trappole dentro il loro cortile. Mi sono sempre sentito in colpa, forse aveva ragione mio padre, sarebbe dovuto restare nel suo mondo selvatico e diffidente, lontano dagli esseri umani.

Gli spiritelli della giustizia svanirono nel nulla pochi anni dopo, vennero lentamente riassorbiti dal buio della notte. Continuai comunque a sentire, sino a quando abitai in quella casa, i loro lamenti.

I bambini di oggi, come quelli di allora, continuano a subire abusi, soprusi e maltrattamenti, nelle strade, nelle chiese, nelle case e nelle scuole, soffrono terribilmente tenendo la bocca chiusa. Non accorre nessuno in loro aiuto, perché nessun adulto sa più leggere nei loro occhi. Quando ci parlano, quando ci guardano, invece che abbassare la testa, dovremmo provare ad inginocchiarci, un gesto apparentemente insignificante che ci permetterebbe di fare un piccolo passo verso la loro dimensione e, magari, di capirli di più. 

Avevo fatto credere a Selvatik che il mondo umano fosse sicuro, gli avevo insegnato a fidarsi di me e di conseguenza di tutti i miei simili. Lo avevo, egoisticamente, inconsapevolmente illuso facendogli perdere la sua innata diffidenza e portandolo direttamente nella trappola mortale della cattiveria umana.

Tucidide scriveva che "il male non è soltanto di chi lo fa: è anche di chi, potendo impedire che lo si faccia, non lo impedisce". I bambini di oggi crescono e vivono in un mondo apparentemente sicuro, questo è quello che gli facciamo credere, non sospettano minimamente che le insidie più pericolose sono quelle che provengono dai loro simili.
Ognuno di noi ha un importante responsabilità sociale, educativa e di controllo, necessaria per spezzare definitivamente quella terribile concatenazione di abusi e soprusi che altrimenti non avrà mai fine.

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