venerdì 9 gennaio 2009

Di padre in figlio

















"...che lo vogliamo o meno, noi siamo i nostri genitori"

Finita la scuola avevo a disposizione solo due, tre settimane per godermi le vacanze a tempo pieno. Trascorso quel termine mi portava ogni giorno a lavoro con lui. Io mi svegliavo sempre qualche minuto prima che entrasse in camera per chiamarmi, ma continuavo a far finta di dormire e speravo, pregavo, come se stessero per portarmi al patibolo, in una grazia dell'ultimo istante, in uno di quei numerosissimi atti di pietà e di generosità che contrassegnavano la sua giornata. Mi giravo in tutta fretta, coricato di spalle alla porta, coprendomi sino al viso per paura che scoprisse la mia finzione. Ascoltavo i suoi passi arrivare, la porta aprirsi. La sua grossa mano si poggiava lievemente sulla mia spalla, scuotendola con dolcezza. A quel punto mi restava da giocare l'ultima carta: non rispondere alla chiamata, cercare di intenerirlo facendogli credere di essere ancora immerso in un sonno profondo. La speranza si infrangeva nel momento in cui la sua voce sentenziava la condanna definitiva e inappellabile: "Andiamo!!!". Forse sbagliavo tecnica, magari sarebbe stato sufficiente dirgli: "Papà, oggi non ce la faccio, mi lasci a casa?". Non glielo chiesi mai, forse non avevo mai nemmeno pensato di farlo.

Nonostante il trauma fosse solo iniziale, smorzato prontamente dall'impatto fisico con l'aria carica di salsedine, fresca e penetrante del primo mattino, ogni giorno, per tre anni, si ripeteva la stessa identica storia. Il viaggio in macchina durava circa mezz'ora; arco di tempo nel quale ogni suo tentativo di dialogo cadeva inesorabilmente nel vuoto creato dal mio silenzio. Io mi preoccupavo solamente di dormire ancora un po’, anche se ogni sforzo in questo senso era del tutto vano: il sonno si era già dissolto e i sogni si erano oramai trasformati in pensieri acquerellati, confusi e disordinati, che si fondevano coi colori dell'alba prima, dell'aurora poi e infine dei primi raggi del sole che segnava puntualmente l'arrivo a destinazione.

A lavoro mi erano stati assegnati compiti precisi, sotto l'iniziale sorveglianza di un responsabile. Lo spazio dietro il bancone era piccolo, ma sufficiente per lavorare comodamente in due.
Gli orari del servizio erano sempre gli stessi: colazioni, break di mezza mattina e caffè dopo pranzo. Per il resto della giornata restavo solo: mi occupavo delle pulizie, del riordino, preparavo gli snack e ricaricavo i frigoriferi. Ogni tanto passava a controllare che andasse tutto per il verso giusto, mi rimproverava per ciò che non era stato fatto bene. Poi mi guardava con tenerezza, mi dava una carezza sui cappelli e tornava al suo lavoro; ci separava una grandissima sala mensa, vuota sino all'ora di pranzo.

”Chissà cosa pensava!” mi chiedo costantemente. Forse che avrebbe dovuto lasciarmi a casa a riposare e a divertirmi, che ero troppo piccolo per iniziarmi al lavoro. Forse era stretto da quella morsa, ancora più forte perché di grande responsabilità, che porta a non essere mai sicuri se quello che si sta facendo sia giusto o sbagliato. Combatteva incessantemente, forse inconsapevolmente, contro se stesso, contro la forza oscura dei propri geni che gli imponevano precisi impulsi decisionali per salvaguardare e migliorare la sua stirpe. Combatteva contro il forte richiamo di quell'amore "sbagliato" per i figli, quello che domina le società opulente, quello che porta i genitori ad essere iperprotettivi, a cercare in tutti i modi di non far mancare niente alla propria prole e a sentirsi perennemente in colpa se non si riesce a soddisfarne ogni desiderio. Combatteva, consapevole dell'evoluzione, del mondo che cambiava, contro le proprie credenze e i propri pregiudizi, non conoscendone esattamente contorni e confini. Combatteva la paura di non riuscire a dare la giusta educazione, il giusto indirizzo professionale, la giusta posizione sociale ai suoi ragazzi. Per un uomo che crea da solo e dal niente un piccolo impero, credo sia naturale nutrire attese importanti per i propri figli. Lui, le sue aspettative, le basava sull'importanza del lavoro come elemento determinante nel contesto sociale in cui si vive. Non era solo un fattore genetico: c'era una grossa componente culturale, sentita fortemente da tutti, in quel periodo, che lo portava a mettere sempre il lavoro al di sopra e prima di ogni altra cosa.
Cercava di carpire i segreti dei miei sogni, gelosamente custoditi, nella speranza di aiutarmi a trovare la soluzione per coltivare le mie passioni, per insegnarmi a non mollare mai.

Mio padre era un imprenditore; in realtà, la sua grande passione e vera professione era fare il cuoco. Un cuoco all'antica, figlio di un’ epoca in cui non si sprecava nulla, in cui gli alimenti avevano un valore intrinseco e assoluto in quanto frutto di sacrificio e sudore. Aveva molta fantasia e la capacità di creare con pochi e poveri alimenti delle squisite e sostanziose pietanze. Mio padre scriveva fiumi di parole e anche poesie, senza alcuna pretesa di crederle veramente tali. Annotava pensieri su qualsiasi materiale accogliesse l'inchiostro della sua biro: tovaglioli, fazzolettini, pezzi di cartone strappati alle derrate alimentari, fogli che trovava per il suo cammino, carta igienica. Se gli veniva in mente qualcosa da scrivere, lo faceva senza mettersi il problema su cosa stesse scrivendo, su chi avesse davanti e su quanto fosse importante ciò che stava facendo in quel momento. Da suo padre, su "launeri" del paese (lo stagnaro, mestiere di chi lavorava i metalli), ereditò la passione per il lavoro e il legame forte e indissolubile per la terra e per la natura, che si trasformò poi in amore e desiderio infinito di riavvicinarsi a lei e viverci immerso.

Quel sogno restò solo un sogno, non gli fu concesso di realizzarlo. Se ne andò prima, sicuramente con l'amaro in bocca. Se ne andò prima che si risolvesse in modo naturale quel conflitto generazionale con un figlio "eversivo", così uguale a lui ma così smanioso di apparire diverso. Quell'esperienza sembra non avermi insegnato nulla per evitare che ciò si ripetesse, con le stesse identiche modalità, seppure con variabili differenti, tra me e mio figlio.

Al di là di quello che ci permette di fare la vita, al di là di quanta forza di volontà mettiamo nel portare avanti quello che sentiamo, per cambiare quello che non ci piace, noi, che lo vogliamo o meno, siamo i nostri genitori. Da loro ereditiamo, a volte detestandoli, caratteri somatici, pregi e difetti, modi di fare e passioni. Io mi sono ritrovato a seguire le stesse orme e a coltivare gli stessi interessi che hanno contrassegnato la vita di mio padre e resto ancora sorpreso nel vedere mio figlio attratto dalle stesse passioni che animano il mio essere: la cucina, il disegno, la musica, la scrittura, la lettura, la natura......

Di padre in figlio viene tramandato un libro su cui ci ritroviamo a scrivere, a continuare la storia, lunga migliaia di anni, del nostro ramo genealogico. Un libro che risale agli albori, dove possiamo leggere, quando ci è consentito, solo delle ultime generazioni, perché i contenuti si cancellano man mano che il tempo avanza. Nello stesso libro, dove attualmente scrivo e dove ci sono le pagine, oramai evanescenti, scritte da mio padre, ora scrive anche mio figlio.

Tutto si ripete, spirito e materia, con una sequenza di fatti impressionante e, in questo caso, senza salti generazionali. Per ironia della sorte rivivo, con uno scambio di ruoli, la sofferenza del conflitto con mio padre e pago, giustamente con la stessa moneta, il dolore causatogli. Tutto questo con un forte sentimento di frustrazione e impotenza, per aver fallito per ben due volte la gestione di un rapporto umano fondamentale, quello tra padre e figlio; prima da figlio verso uno splendido padre, ora da padre verso uno splendido figlio.

Antonia e il Lentisco

“Sarò anch'io come il lentischio, che solo per gli umili che ne conoscono il segreto nasconde nelle su...