martedì 13 ottobre 2015

Antonia e il Lentisco




















“Sarò anch'io come il lentischio,
che solo per gli umili che ne conoscono il segreto
nasconde nelle sue radici la potenza del fuoco,
e nel frutto selvatico l'olio per la lampada e per gli unguenti...” 
Grazia Deledda 

Antonia era solita svegliarsi di primo mattino, non conosceva indugio o traccheggiamento. L’orologio biologico funzionava meglio di qualsiasi altra sveglia moderna, indispensabile quanto, paradossalmente, fastidiosa e insistente. Perché, per quanto possa sembrare strano, il funzionamento e soprattutto l’efficienza del corpo umano è strettamente legato ai ritmi naturali del sole. Ogni giorno era lungo e faticoso, richiedeva determinazione e perseveranza, qualità sempre meno presenti nelle società opulente e occidentalizzate. Antonia s’incamminava presto per arrivare prima che il sole sorgesse, quando, ancora nascosto, irradiava di luce divina il paesaggio irrorato di rugiada, piccole stille d’acqua che sembravano disposte sull’erba, dolcemente e ordinatamente, da qualcuno che sgattaiolava velocemente vedendola arrivare. Non esiste aria da respirare così carica di vita e di energia, così intensa e appagante, quanto quella del primo mattino.

La sera, appena il sole tramontava, prima di coricarsi nella piccola e buia stanza dai muri spessi, dopo aver acceso la lampada a olio, Antonia raccoglieva ordinatamente, sopra uno scanno vicino all’uscio, tutto l’occorrente per il giorno successivo: due fette di pane Civraxiu avvolte in un panno; “su Mucadori” (il classico fazzoletto per coprire la testa, con le cocche da legare sotto il mento);  “su Seddazzu” (un setaccio che si poggiava sotto il petto dopo averlo appeso al collo tramite una cordicella); e un vecchio sacco di lino. Pochi e poveri alimenti per una giornata di lavoro che sarebbe terminata ben oltre il pomeriggio, una fetta di pane con un piccolo pezzo di formaggio per sostenere il mattino, l’altra per il pranzo, accompagnata con qualcosa raccolto durante il cammino: un frutto, una bacca, una radice o dell’erba selvatica. Pochi e poveri utensili per affrontare giornate lunghe e faticose, lo strumento principale era il corpo, strategicamente posizionato di fronte alla pianta scelta, genuflesso o con curvo sulla  schiena per lunghe e interminabili ore. Un lavoro di braccia e soprattutto di mani, tra le quali dovevano essere sfregati, con misurata energia, i ramoscelli carichi di drupe che cadevano direttamente dentro il setaccio. A quel tempo non ci si lamentava mai con nessuno, solo con se stessi. Rispetto a oggi c’era una maggiore sopportazione del dolore e della fatica, una sostanziale differenza nella concezione del proprio essere rapportato al contesto esistenziale. Con le abitudini di vita legate a un benessere crescente e spropositato, lamentarsi è diventato una costante, e il lamento si è trasformato in lagna, peculiarità intrinseca dell’avere qualcosa, più di quel che si è fatto per ottenerla. Antonia si limitava a un sussurrato “hoi hoi” solo nel momento in cui doveva riportare schiena e ginocchia in posizione eretta. Avrebbe riempito il sacco pazientemente, immersa nella macchia mediterranea, tra i suoi pensieri, tra odori e silenzi di quei luoghi d’infinita pace e serenità.

Per la raccolta “de su Modditzi” (il Lentisco) le donne del paese si muovevano sempre in gruppo, partivano presto e al ritorno si riunivano in casa dell’una o dell’altra, coinvolgendo i familiari, per la selezione e la trasformazione delle drupe. Con il lavoro di squadra si ottenevano migliori risultati: maggiore produttività e una sensazione della fatica più sopportabile. Anche la raccolta sembrava meno pesante, con gesta usitate raccoglievano, setacciavano e riempivano velocemente i sacchi, tra risate e schiamazzi che si perdevano tra la vegetazione mediterranea, che sembrava li assorbisse, cancellandoli dal mondo in pochi istanti. Si dilettavano soprattutto a sparlare su ogni singolo compaesano, loro comprese, quando capitava che, a turno, fossero assenti. Perché sembra che il tempo passi più veloce quando sparliamo degli altri, ancora di più quando è l’invidia a farci muovere le labbra copertamente e spalancare attentamente le orecchie. Denigrare è una droga, fintamente appagante e straordinariamente illusoria, che ci fa credere d’essere migliori, sino a che l’effetto svanisce. Un’effimera soluzione, facile e veloce, che permette di non cadere nell’oblio della frustrazione per non essere arrivati in ciò che si sarebbe voluto, in ciò in cui qualcun altro è riuscito, non cambia niente se per merito o fortuna. Nietzsche scriveva che “l’invidia nasce quando uno è desideroso, ma non ha prospettive”. Antonia desiderava e aveva ottenuto, pagando il prezzo della solitudine in un mondo soffocato da preconcetti e pregiudizi, un’esistenza di pace, rispetto e serenità. Amava la natura, incondizionatamente, sopra ogni altra cosa, s’immergeva nei suoi incantevoli paesaggi, perdendosi piacevolmente e allontanandosi sempre di più dall’insensibilità umana. La sua mente era pulita e trasparente come l’aria del primo mattino, libera e sgombra da tutti quei pensieri che attanagliano e rendono prigioniere le menti di chi ogni notte si addormenta e si risveglia con l’ossessione di dover trovare, a tutti i costi, i difetti degli altri.

Dalle compaesane aveva imparato a conoscere i meravigliosi segreti della pianta del Lentisco, rimanendone conquistata e affascinata sin dal primo momento. Da loro aveva appreso la tecnica della raccolta e la laboriosa lavorazione delle drupe, per trasformarle, tramite un articolato processo, in “Oll’e stincu” (Olio di Lentisco); le avevano insegnato a incidere la corteccia, dalla quale fuoriusciva lentamente una preziosa e profumata resina. Ogni parte della pianta aveva proprietà specifiche: con le foglie, usate anche per la concia delle pelli, si preparavano impacchi lenitivi e decongestionanti; i piccoli rametti erano usati come antiodorante e antitraspirante e, pestati con l’olio di oliva, come unguento per le ferite; la legna con il suo colore rosso venato per intarsi e lavori di falegnameria, e poi per il fuoco e per produrre un ottimo carbone. Dai suoi frutti, a seguito di ebollizione e spremitura, si estraeva l’olio usato a scopo alimentare e per l'illuminazione. Dalla resina, raccolta d’estate ed essiccata, si sfruttava il potere cicatrizzante e antisettico. Gli scarti delle lavorazioni diventavano mangime per gli animali.
Essere parte del gruppo procurava ad Antonia un senso profondo di condivisione, compagnia e sicurezza. Malgrado questo però, molto presto si allontanò, isolandosi da quel mondo così distante, così oscuro. Mal sopportava le lingue biforcute, affilate come pugnali, sempre pronte a colpire chiunque, in ogni momento. Lei stessa ne era consapevole vittima. Durante la raccolta, le compagne acceleravano i ritmi per lasciarla indietro e poter sparlare tranquillamente alle sue spalle. Basta poco per essere bersaglio di chi decide di passare il tempo a controllare la vita altrui dimenticandosi di vivere la propria; di chi assurge a ruolo di Dio, fortunatamente senza nessun altro potere di quello, già troppo pericoloso, dei propri occhi che giudicano; della propria lingua che condanna; della propria mente che desidera esporre il “colpevole” a pubblico ludibrio. Non è indispensabile commettere un grave errore, basta il modo di vestire, un’idea, l’aspetto fisico, lo stile di vita. Antonia ne era colpevole: perché non partecipava al rito quotidiano, ormai consolidato, dei sommari processi inquisitori e delle sentenze lapidarie; perché aveva scelto di vivere senza un uomo; perché parlava da sola. Questo era più che sufficiente perché fosse marchiata d’infamia, troppo diversa per meritare altra sorte.

Il Lentisco è una pianta umile e frugale, unica e straordinaria, con sorprendenti proprietà sensoriali, nutrizionali e salutistiche, e con la capacità di cambiare tutto ciò che ha attorno, di migliorare il terreno dove cresce. Rappresenta l’importanza e la difesa del territorio e della sua sostenibilità, il rispetto della biodiversità. E’ considerata oggi pioniera della vegetazione mediterranea, importantissima per il recupero e l'evoluzione di aree degradate. Ci sono voluti migliaia di anni per riconoscere le sue incredibili qualità, un periodo troppo lungo, che al tempo stesso può non essere sufficiente, per riconoscere le doti di un essere umano.

Antonia era una donna semplice, d’animo umile, dal carattere forte e sensibile. Intelligente e profonda, non accettava compromessi e sottomissioni. Aveva una capacità straordinaria di svolgere con amore e passione i lavori manuali: era palese il livore nel volto di chi, quando ancora si riunivano tutte assieme, la guardava perfezionare con incredibile facilità e semplicità le tecniche di lavorazione e conservazione dei prodotti raccolti. Antonia aveva pagato a duro costo la propria scelta di libertà, presa senza indugio e tentennamento perché, conoscendo la natura e rispettandone le sue indiscutibili regole, sapeva che ogni percorso, ogni idea, ogni progetto, ogni desiderio, ha un prezzo da pagare. E più è grande il proprio sogno, più distante la meta da raggiungere, più diventa tortuosa e pericolosa, impegnativa e sacrificante, la strada da percorrere. Antonia visse tutta la vita da sola, e da sola morì, in una giornata d’ottobre, con un ramoscello di Lentisco stretto tra le mani. Aveva legato in maniera indissolubile con la natura e della pianta del Lentisco portava addosso il  profumo, nello spirito la forza del suo legno e nell’animo la sorprendente potenza e il vigore di chi ha la capacità di sopravvivere nelle condizioni più estreme, non avendo paura di niente, nemmeno del fuoco.  

Mi chiedo se l’invidia, miserabile sentimento, sia davvero fondamentale per l’essere umano, per la sua sopravvivenza, per la sua evoluzione, giacché oggi più di ieri, con l’ausilio della tecnologia, siamo tutti pronti a colpire e screditare in modo più istantaneo, violento e mirato, chi non rispetta gli standard, chi non si uniforma al modo di vivere comune. Mi chiedo se tutto ciò si manifesti in funzione della convinzione che esista davvero qualcuno inferiore a noi.  


Cagliari, 13 Ottobre 2015
Massimo Mameli

sabato 8 ottobre 2011

Lunghe ombre verso est


"Andremo via da qua, lo sappiamo per certo. E' un destino ineluttabile al quale nessuno si può sottrarre, eppure abbiamo sempre paura e ci inventiamo mille favole per attenuarla alimentando continuamente la speranza di un anima immortale. Andremo via da qua, chi per primo tra noi, dove, come e quando non ci è dato sapere"

Varcai il cancello d'ingresso con il cuore in gola, cominciava ad assalirmi la solita agitazione, nonostante avessi pianificato l'incontro nei dettagli. Più che un incontro si sarebbe trattato di uno scontro. Come ogni volta che, da qualche anno a questa parte, si cercava di risolvere una diatriba che sembrava non avesse fine. Sarebbe stato difficile tenergli testa, non mi avrebbe ascoltato o forse non sarei riuscito a farmi ascoltare: sapevo in partenza che comunque non avrei retto il confronto.
Camminavo lentamente, con lo sguardo basso come se volessi rimandare l'appuntamento. Attraversavo uno di quei tanti periodi della mia vita in cui evitavo di affrontare i problemi, accumulandoli alla rinfusa in uno spazio recondito della mia mente, senza mai computarli. Mancavano poche decine di metri, ma a ogni passo verso di lui sentivo sgretolarsi tutta quella sicurezza, vantata dai miei pensieri sino a un attimo prima, di riuscire a far valere le mie ragioni. Sollevai gli occhi e me lo ritrovai davanti, qualche passo prima di quanto avessi calcolato, perdendo la concentrazione e anche quei pochi ultimi secondi utili per un disperato ripasso dei punti deboli di un discorso vano studiato a memoria. I castelli di parole che avevo pazientemente costruito in giorni e giorni di angosciosa attesa furono improvvisamente avvolti da una coltre di nebbia talmente fitta da offuscarmi persino la vista: il timore reverenziale che provavo nei suoi confronti aveva un potere immenso su di me. All'improvviso pensai d'esser spacciato, mi ritrovai in balia degli eventi, avrebbe disintegrato con un pugno di parole ogni mia minima pretesa di ragione. Stranamente però, stette zitto, non apri bocca e, con un gesto lento e amorevole, allungò un braccio verso me e prese la mia mano calda e tesa tra le sue, fredde e tremolanti.
Io e lui, all'interno di un silenzio irreale, nel cortile di casa in paese, ognuno con in testa le proprie paure: le mie futili al cospetto delle sue essenziali. Due piccoli mondi vaganti nell'universo infinito che si avvicinavano sino quasi a toccarsi e si respingevano allontanandosi ogni volta sempre di più, senza mai scontrarsi veramente per riuscire a dirimere una controversia che rischiava, man mano che passava il tempo, di restare sospesa per l'eternità. Dalla campagna arrivava forte l'odore di elicriso, il suo dolce aroma di liquirizia pervadeva l'aria che respiravo. Eravamo li, uno di fronte all'altro, incuranti di tutto ciò che esulasse dalle nostre presenze, come fossimo soli al mondo. Fissava i miei occhi da ragazzo, ancora acerbi e distratti, apparentemente sicuri, con il suo sguardo, questa volta meno forte e autoritario del solito, ma ancora più straordinariamente carico di quella rara umanità di cui era intrisa la sua anima. Io, troppo preso dal cercare di dimostrare le mie ragioni e volere averla vinta a tutti i costi, non mi ero accorto da subito che c'era qualcosa di diverso in lui. Ma poi, lentamente la nebbia che mi teneva in ostaggio si diradò e cominciai ad intravedere la realtà delle cose. Mi comparve davanti la sua figura nitida, il suo viso dimagrito carezzato dal rosso tiepido di un sole che tramontava lentamente; le nostre ombre, che si allungavano verso est, sembrava ci indicassero una direzione. Restai immobile davanti a ciò che, più di ogni altra cosa al mondo, non avrei mai voluto succedesse; restai sgomento davanti a un incubo terribile, dal quale poi non mi sarei più svegliato. Guardavo incredulo i suoi occhi velati di lacrime desiderose di tracimare, sembrava si muovessero in una triste danza riflettendo i raggi del sole che scivolava piano dietro le case; lacrime impazienti di valicare il confine che le separava dalla luce, ma trattenute dentro a forza da mandibole serrate quasi a spaccare i denti. I suoi occhi che non volevano arrendersi, o non volevano credere e far credere che ci fosse una minima possibilità di resa. 
Piangere tra le braccia di chi si ama ha un senso liberatorio e consolatorio impareggiabile, ma non sempre ci si può lasciare andare. Se il pianto svela un dramma profondo e irrisolvibile si opta per affogare il proprio cuore nelle lacrime, piuttosto che investire le persone amate del proprio dramma.
Mi ritrovai senza respiro, come colpito al petto violentemente da una botta improvvisa e inattesa: era il mio cuore che si spezzava. Compresi in un solo istante il vero senso di quel silenzio e di quello sguardo che mi aveva protetto sino ad allora e che ora andava lontano, attraversando il mio corpo sino a giungere dentro e oltre quel meraviglioso cielo terso, mantello velato sulla nostra angoscia. Non l'avevo mai visto cosi', e nemmeno sopportavo il pensiero di cosa potesse avere indebolito la sua inesauribile e inattaccabile forza e determinazione.
Sino a quel momento mi era sempre venuto difficile pensare che fossimo di passaggio, capire che ogni secondo della vita potesse essere l'ultimo, non tanto per gli altri, che oramai mi ero abituato a veder andare via, quanto per me e le persone care, che egoisticamente credevo immuni da disgrazia e morte. Non feci nemmeno in tempo a pensare di trattenere il pianto che cacciai dagli occhi fiumi di lacrime e dalla bocca urla di disperazione che non emettevano suono. Piansi senza alcun ritegno, nonostante sapessi che non avrei dovuto. Venne fuori tutta la mia fragilità, quella che ho sempre cercato di tenere nascosta mostrando capacità e virtù solo desiderate e mai realmente possedute. In quel momento capii le cose fondamentali, quelle che nessuno osa mai insegnare e che da soli non riusciamo a cogliere sino a che la vita non ce le sbatte con violenza e cinismo in faccia. Mi sentii debole e pesante, come se la gravità avesse improvvisamente aumentato la sua forza, come se una mano invisibile mi spingesse verso il basso sino a farmi genuflettere davanti a lui e a un destino nefasto che stava decidendo, con la scure in mano, le nostre sorti; mi sentii assorbire dalla profondità dei suoi occhi scuri e tutto il mio essere - il mio corpo, la mia anima e il mio immancabile fagotto carico di egoismo, presunzione, superbia e ipocrisia- di fronte a tanta concretezza di dolore, sofferenza e impotenza, evaporò, impregnandomi il cuore di un terribile e indelebile senso di colpa e di angoscia che da allora non mi abbandona più.
Capii la vera essenza, quella lacerante e crudele, della parola fine e, in una fazione di secondo, anche il senso delle sue parole, di tutte quelle dette sino a quel giorno e anche di quelle che mi avrebbe voluto dire, soprattutto da quel momento in avanti, consapevole del fatto che non avrebbe più potuto, perché qualcosa di più forte di lui l'avrebbe strappato alla vita, di li a poco, con violenza e crudeltà inaudita, come un ciclone che si porta via con assoluta leggerezza e noncuranza una pianta forte e solida, seppur da secoli saldamente radicata al terreno.
Non voleva andare via, chiaramente, come tutti o quasi, almeno non sino a quando il male gli tolse anche il più piccolo attimo di tregua, sfiancandolo e logorandolo in una lotta impari, senza regole e già segnata; colpendo ripetutamente, con insistenza e costanza la speranza, ultimo baluardo d'esistenza, sino a farla desistere. Non voleva andare via, come credo nessuno di noi: si ha sempre voglia di restare, ancora di più se si sa di dover andare; si ha sempre qualcosa da portare a termine che non si vorrebbe lasciare in sospeso, pendenze da sistemare; si ha sempre qualcuno che non si vorrebbe lasciare mai. La morte incute paura e non sopportiamo il fatto che ci falci, come e quando vuole, come fossimo fragili steli d'erba. Non riusciamo ad accettarla nonostante sappiamo che questo sia l'unico destino possibile già capitato ad oltre 70 miliardi di esseri umani prima di noi e chissà quanti altri dopo. Una cultura arcaica, egocentrica, fondata sulla paura ci acceca dalla notte dei tempi portandoci a credere, in modo esponenziale,  d'essere i padroni del mondo, rendendoci sempre più schiavi delle cose materiali come se fossero nostre per l'eternità.  E, ancora peggio, spingendoci, in una sorta di triste emulazione, ad arrogarci il diritto di decidere il destino dei nostri simili.
Chissà quali pene ha provato e quanto si sia sentito immensamente solo nel dover preparare la sua valigia di pensieri e affetti per affrontare quel viaggio estremo, mesto e solitario, di sola andata, verso l'ignoto. Temeva che ciò in cui aveva creduto da sempre, fosse solo un illusione e all'improvviso la sua certezza che oltre la vita ci aspettasse un luogo privo di pregiudizi e moralismi ingannevoli, dove ritrovarsi e potersi riabbracciare senza paure e rancori, vacillò.
E' andato via da qua, ormai da ventiquattro lunghi anni, prima che arrivasse il momento più importante della mia vita, quello in cui avrei capito di avere ancora e sempre più bisogno di lui. 
Da allora con una frequenza impressionante, mi si presentano in sogno conoscenti, ogni volta diversi, con tono consolatorio mi dicono di non disperare perché lo hanno visto in giro da qualche parte e io cado in una disperazione tanto grande e persistente da logorarmi l'animo per non averlo mai cercato credendolo morto.
Di lui mi è rimasto il suo amore e forse anche il suo modo di amare. Conservo anche alcune cose materiali, certe -una vecchia foto dell'ultimo periodo e il suo cuscino impregnato del suo odore- già consumate dal tempo, altre perdurano ancora: un foglio dove aveva scritto un aforisma sull'impossibilità della vita senza la morte e dove sul retro, alcuni giorni dopo la sua partenza, seduto su una roccia nella sua campagna, scrissi il mio dolore per la sua insopportabile assenza. Custodisco gelosamente quel foglio perché dopo averlo scritto, con un gesto di stizza lo lanciai al vento che lo trasportò lontano sino a farmelo ritrovare distante diverse centinaia di metri sulla strada di ritorno verso casa: 
“E mentre cammino, sordo per non sentire il silenzio della natura che un tempo tu sentivi, e cieco per non vedere le meraviglie della natura che un tempo tu vedevi, un brivido di freddo m'avvolge: è il sole che se ne sta andando oltre i tuoi meravigliosi monti, va ad illuminare altri luoghi, altre genti. Va via, così come hai fatto tu, con una unica ineluttabile differenza: ogni giorno il sole ritorna e ci accarezza il viso coi suoi raggi di vita, tu invece no e la tua immagine è sempre più sfuocata nella mia mente. Sulla tua lapide c'è una foto, ma che calore da il sole visto in fotografia? 
Anche questa sera, come ogni sera, il sole è andato via lasciandomi solo ai tanti dubbi della notte. Papà, la tua assenza sarà eterna notte in attesa del giorno in cui anche noi tramonteremo oltre la meravigliosa bellezza dei tuoi amati monti!”
Non avrei dovuto aspettare che le ombre lunghe si ritraessero, non avrei dovuto lasciare che mio padre andasse via in questo modo, non avrei dovuto far sì che le divergenze aumentassero a detrimento di un rapporto fondamentale per la mia vita. Non tanto per l'alto prezzo che avrei pagato, quanto per la sofferenza che ho inflitto al suo animo. Prima o poi dobbiamo rendere conto a qualcuno delle sofferenze che infliggiamo agli altri, anche se, alla fine, i giudici meno indulgenti saremo noi stessi.

Quel giorno andai da lui non per chiarire ma per far valere le mie ragioni. Tornai indietro distrutto nel fisico e nello spirito: mi sentivo invecchiato di cent'anni, con le ossa spezzate, il cuore sanguinante e l'animo condannato a pagare il fio meritato. 
Di li a poco la morte me lo portò via prima che capissi, prima che riuscissi a pronunciare quella semplice, ma fondamentale parola che da allora mi tormenta, riecheggiando incessantemente nella mia mente: “scusa papà”.

mercoledì 10 agosto 2011

Cronaca di una rapina annunciata


Colui che non può contare su alcuna musica dentro di sé, e non si lascia intenerire dall'armonia concorde di suoni dolcemente modulati, è pronto al tradimento, agli inganni e alla rapina: i moti dell'animo suo sono oscuri come la notte, e i suoi affetti tenebrosi come l'Erebo" William Shakespeare

La spranga di ferro è vicina, cinquanta forse sessanta centimetri dalla mia mano, è una distanza comunque troppo elevata per arrivarci integro. Non c'è il tempo per pensarci su, ma non serve ragionare per capire che non avrei lo spazio sufficiente nemmeno per afferrarla, figuriamoci sferrare un colpo letale. C'è anche il coltello a serramanico, lo vedo con la coda dell’occhio, l’avevo sistemato qualche anno fa, viste le disavventure precedenti, accanto alla cassa in modo da poterlo afferrare velocemente nel caso di un attacco frontale, ma è ancora più distante ed è anche chiuso; dovrei prima arrivarci e poi aprirlo. Mi servirebbe fermare il tempo per dare una diversa piega a questo dramma, consapevole del rischio di peggiorare ulteriormente le cose. In realtà il tempo è fermo, anzi in questo momento non esiste proprio, sono sospeso in aria, poggiato sul nulla: è come se non respirassi, come se il cuore non battesse più; non sento gli odori e i rumori, non vedo i colori. Tutto si svolge in un contesto irreale, all’interno di una bolla asettica, una sorta di sogno piatto del quale non si ricorda niente se non piccolissimi frammenti. E’ curioso che non provi nessun timore, o forse la paura, in situazioni del genere, si manifesta proprio in questo modo. Eppure ho già vissuto queste esperienze sinistre, purtroppo più di una volta, ma solo ora capisco che tutto ciò è una normale reazione del cervello: si perde ogni percezione, quasi come se il tempo e lo spazio si fondessero in un’unica entità sconosciuta ai sensi, alla ragione. Anche se ogni volta è una storia a se. La volta precedente, circa quindici anni fa, fui assalito per strada, da due, forse tre individui; ero in macchina, fermo a un semaforo in attesa che scattasse il verde. Mi tramortirono, presumibilmente con un “taser”, una pistola elettrica, e mi portarono via la valigetta con l’incasso del fine settimana, un bel gruzzoletto. Un mese d’ospedale e un danno materiale molto pesante, ma questa è un’altra storia.
Loro sicuramente non stanno provando le mie stesse sensazioni, anche se sembra che abbiano più paura di quanta possa provarne io. Di sicuro hanno molta fretta, l’obiettivo è arraffare il più che possono nel minor tempo possibile, e per farlo ogni secondo è prezioso. Anche se avessero pianificato al dettaglio, credo sappiano molto bene che le variabili sono troppe per poterle mettere tutte in conto. La pistola non può nulla contro qualcosa che va storto, ma, purtroppo, sembra proprio che a loro oggi vada tutto per il verso giusto. Chissà, magari non hanno neppure abbozzato un piano.
Sono le 23:40, il pizzaiolo è andato via da qualche minuto. Erano sicuramente appostati fuori aspettando che uscisse, una persona in meno da controllare. Alessio si è appena cambiato, ha salutato e sta per raggiungere l’uscita sul retro. Se li trova davanti, proprio a pochi passi dalla porta, lo obbligano a tornare indietro e gli impongono di buttarsi a terra. Ora è prono sul pavimento mentre Andrea, il più distante dalla scena, è di spalle; imperterrito continua a lavare stoviglie, come se non sentisse, come se niente succedesse. Per un istante ho pensato stesse pianificando qualcosa, ma neanche il tempo di elaborare questo pensiero che non lo vedo più, sparisce nel nulla, allertando immediatamente uno dei due rapinatori che comincia a urlare come un forsennato “dov’è l'altro?”. Si distrae persino dall’obiettivo principale, la cassa, per capire quale diavoleria ci fosse dietro una sparizione così istantanea, giacché da quella posizione l’unica via d’uscita verso l’esterno era lo scarico del lavandino. Nemmeno Flash sarebbe riuscito a fare meglio. Andrea non aveva nessun piano se non quello di salvarsi, giustamente, la pelle. Un anfratto nel sottobanco l’ha attirato come una gigantesca calamita attira un scheggia di ferro. Lo immagino lì sotto, pregando che non lo trovi nessuno, con la stessa intensità di un bambino che gioca a nascondino. Anch’io spero che non lo trovino. Andrea è un folle, non mi sorprenderei se uscisse di corsa urlando “Chiesa, salvo tutti!!!”. 
Loro sono in due, completamente coperti da indumenti scuri, dalla testa ai piedi. Dai piccolissimi fori sul cappuccio sono visibili solo gli occhi. Ci sanno fare, o perlomeno non è la prima volta che lo fanno. Uno è alto e snello, ha un modo di muoversi molto particolare, inconfondibile, riceve gli ordini ma li esegue troppo lentamente, sembra impacciato; ho l’impressione che abbia paura d’essere riconosciuto. L’altro è alto e robusto, con la pancia pronunciata; parla solo lui, nessuna inflessione dialettale che possa far capire la provenienza geografica. Ha la pistola in mano e impartisce gli ordini che, puntualmente, esegue da solo. Mi ha colto alla sprovvista, arrivando alle mie spalle con passo velocissimo, non permettendomi di contestualizzare nell’immediato ciò che stava accadendo e di conseguenza azzerando tutte le possibilità di reazione. "BUTTATI A TERRA, TI FACCIO UN BUCO IN TESTA, TI AMMAZZO!". La pistola poggiata sulla nuca fa un certo effetto. Il dito è sul grilletto; tengo le mani in vista e mi muovo lentamente, esattamente dove lui vuole che vada. Basta una mossa sbagliata per far partire un colpo. Sempre che sia una pistola vera, ma non è forse il momento adatto per scoprirlo, preferisco tenermi il dubbio.
Mi muovo lentamente e faccio quasi tutto ciò che mi viene chiesto, ma non mi butto a terra e non la smetto di guardarlo negli occhi: “TI HO DETTO DI NON GUARDARMI, BUTTATI A TERRA, TI BUCO LA TESTA!” . Ora però non mi piego al suo volere, nonostante la pressione della pistola, poggiata con forza tra il pomo d’adamo e lo sterno, mi spinga sempre di più verso il basso. Non sento nemmeno il dolore. E’ impressionante quanto cambi la percezione del dolore in determinate situazioni. Non ubbidisco, ma senza rendermene conto, involontariamente, come se inconsciamente tentassi di mantenere un briciolo di controllo su una situazione che non ha assolutamente più niente sotto il mio controllo. Eppure tutto si sta svolgendo nel mio territorio, nel luogo dove vivo buona parte delle mie giornate. Sembra non finire più, la lancetta dei secondi sicuramente si muove come se segnasse le ore, mentre al di fuori della frattura spazio temporale in cui sono precipitato la vita prosegue regolarmente. Stranamente nel locale non entra più nessuno, eppure fuori ci sono oltre cinquanta clienti che non si accorgono di nulla; persino i telefoni, che solitamente trillano sino e oltre mezzanotte, hanno smesso di squillare. Mi sento solo. Sono solo! In un tentativo disperato di uscire da quella gabbia invisibile mi chiedo cosa posso fare, ma la risposta è attinente allo svolgimento della situazione e mi viene in mente nel momento stesso in cui ho formulato la domanda, anzi forse ancora prima: “Non posso e non devo fare assolutamente niente. Devo stare tranquillo, tutto volge a termine, a breve questa brutta storia sarà finita”. Sta rapidamente scemando anche l'idea di un’ipotetica reazione, mi sto rassegnando al fatto di non poter fare niente. Li guardo ancora una volta negli occhi prima di abbassare definitivamente il capo. Mi rendo conto che in questo modo sto permettendo loro di fare tutto ciò che vogliono. Continuano, però, a tenermi sempre a debita distanza dalla mia postazione, in una posizione senza nessun appoggio, senza nessun appiglio. Così facendo non mi permettono di ritrovare il punto di riferimento, psicologico più che materiale, che ho perso dal momento in cui sono arrivati, chissà se questo loro lo sanno. DI sicuro sanno che è rischioso farmi avvicinare al piano di lavoro, nasconde troppe insidie, potrei, con una sola mossa, accedere a un allarme o afferrare un’arma, anche perché con quei piccoli buchi nei passamontagna la visuale è minima.
La voce del più grosso tuona: “COME SI APRE LA CASSA!”. Cerco di avvicinarmi per esaudire la richiesta, ma mi ritrovo la pistola puntata tra gli occhi e con violenza vengo strattonato per ritornare al posto assegnato. “STAI FERMO, NON MUOVERTI” e rivolgendosi ad Alessio “VIENI TU, APRILA TU”. L’idea che si stesse chiamando in causa qualcun altro mi spinge a una reazione improvvisa e determinata, anch’io ora alzo la voce: POSSO APRIRLA SOLO IO!” “LASCIATELO STARE. ALESSIO, STAI FERMO DOVE SEI” Senza aspettare il loro consenso m’inginocchio per accedere al tasto nascosto di apertura manuale, con i loro occhi puntati addosso come fossero sensori e detonatori allo stesso tempo. Infilo la mano sotto la cassa, ora ho il coltello vicinissimo, a un solo centimetro dalle dita, una frazione di secondo per decidere, chiudo gli occhi, ma continuo a vedere come se fossero aperti. La rassegnazione e la paura prevalgono: apro il cassetto, mi sollevo in piedi, lentamente ritorno al mio posto, definitivamente rassegnato. Tolgono dal nulla una busta della spazzatura di plastica nera, la aprono  e ci rovesciano dentro tutto il contenuto del cassetto. Assisto impotente e impietrito allo scempio: iene che si avventano sulla carcassa di un animale morto, strappando, tirando a se il più che possono prima di essere scoperte. Hanno trovato un tesoro, molto di più di quello che si aspettavano. La fortuna è con loro: capita rarissimamente – una, al massimo due volte l’anno - di avere tutta quella liquidità in cassa; per una serie di coincidenze oggi c’è. D’altronde, nel gioco delle parti, la fortuna di uno è spesso l'inevitabile conseguenza di un errore dell’altro. Portano via tutto: le banconote, i buoni pasto e le monete più piccole. Sta finendo l’incubo, ora andranno via, ma la mia mente, senza che gliene faccia esplicita richiesta, non ci sta. C’è il momento giusto per ogni cosa. Che la buona sorte abbia deciso di stare dalla loro parte lo devo accettare, ma sino a un certo punto. Il mondo è dominato dal caso, ma io ho il potere, così come lo hanno avuto loro sino ad ora, di non lasciare che le cose vadano nella direzione in cui stanno andando, nella direzione in cui loro hanno deciso. La rassegnazione si sta trasformando in riscossa, la paura in rabbia. Chiudo forte i pugni e stringo i denti: devo solo aspettare che mi voltino le spalle, prendere al volo le chiavi della macchina, il cellulare e lanciarmi all’inseguimento. In quei pochi istanti individuo le posizioni di tutto ciò che mi servirà, visualizzo mentalmente il parcheggio della macchina e determino tutte le probabili vie di fuga e le varie possibilità di inseguimento. Penso anche all’eventualità di trovarmeli davanti alla macchina mentre scappano e sono consapevole che il sentimento di disprezzo e di amarezza che sto provando ora non lascerebbe lo spazio a nessuna pietà. Ma forse è ancora troppo presto per pianificare, non è ancora finito, manca la sorpresa finale. Non paghi della razzia, afferrano con mani ingorde il telefono palmare accanto alla cassa e poi, strappando con violenza i fili, il pc portatile. Un’ultima richiesta prima di andare via, come se mi avessero letto nel pensiero: “DAMMI LE CHIAVI DELLA MACCHINA”. Con la coda dell’occhio guardo verso il muro, dove sono appese tutte le chiavi, ci sono di tutt’e tre le autovetture. Allungo la mano, prendo quelle meno utili e spero che non si accorgano delle altre due. Non si accorgono, è fatta! Hanno lasciato le chiavi giuste e non si sono accorti dell’altro telefono cellulare. Io sono pronto, sento il mio cuore battere fortissimo.
La mia sensazione iniziale non era errata, ci sanno fare. Sanno benissimo cosa stanno facendo e soprattutto come lo devono fare. Sanno perfettamente che sarebbe stata una leggerezza imperdonabile voltare le spalle a colui cui hanno appena perpetrato un abuso: mi colpiscono improvvisamente con il calcio della pistola, violentemente allo zigomo, facendomi perdere i sensi. Stramazzo al suolo come uno straccio zuppo d’acqua. Resto a terra, non so per quanto tempo, non ricordo niente. Il nulla più assoluto è padrone del mio corpo e della mia anima. Sì, proprio il nulla. Se il colpo fosse stato mortale, non avrei avuto il tempo di rivolgere il mio ultimo pensiero alle persone che amo, mi sarei spento esattamente come si spegne un elettrodomestico che non funzionerà mai più. Che la morte mi prenda pure come vuole, ma non in questo modo. Con la faccia bagnata mi risveglio, circondato da mani che si agitano; visi deformati che si allontanano e avvicinano; occhi spalancati, spaventati; voci che chiamano un nome, il mio, come se stessero cercando di afferrare qualcuno per non farlo andare via. Mi parlano, mi fanno domande incomprensibili, sono confuso. Rinsavisco in brevissimo tempo e cerco di tranquillizzare le persone accorse, ma fingo, mi sento sprofondare nelle sabbie del risentimento, in un luogo buio e infido, irto di cocci di vetro che dilaniano l’animo.
Piango, un profondo pianto di liberazione. In corpo sento rabbia e dolore, frustrazione e sconforto, sconfitta e afflizione. Sono seduto in un angolo, non so nemmeno dove. C’è qualcuno accanto a me ora, sento respiri, mani poggiate sulle spalle, voci dolci e di conforto, carezze sul viso e infine abbracci. Questi i primi segni di un’enorme valanga d’affetto che mi ha improvvisamente sommerso senza lasciarmi il tempo di pensare, aiutandomi a sopportare tutto il male subito e, soprattutto abbandonare l’idea martellante di chiudere l’attività e costruirmi un altro lavoro, più sicuro e meno impegnativo.
Il mio cruccio è di aver permesso che accadesse tutto questo, in questo modo, abbassando la guardia nonostante abbia subito una decina di atti delittuosi e vili; di essermi cullato sul fatto che ormai da tre anni non succedevano più sinistri simili; di essermi sentito protetto da una sicurezza relativa, quella di avere sempre tante persone attorno. Queste disattenzioni ci hanno reso facile bersaglio di persone miserabili e senza scrupoli. Mi sento l’unico responsabile, non posso più commettere errori simili, mettendo a repentaglio anche la sicurezza altrui. Ci sono responsabilità dalle quali non ci si può sottrarre; scansandole o affrontandole con leggerezza porterebbero a conseguenze irreversibili, un prezzo troppo alto da pagare per chi lavora con onestà e rispetto delle regole.
Io vado avanti per la mia strada, come il cuore mi suggerisce, perché ho da prendermi cura di tante persone, dei miei collaboratori e dei miei preziosi clienti che sento come figli, amici, fratelli e genitori. E' questa l'unica mia ricchezza, non permetterò a nessuno di portarmela via. 

mercoledì 10 febbraio 2010

Gli spiritelli della mia infanzia

"il male non è soltanto di chi lo fa: è anche di chi, potendo impedire che lo si faccia, non lo impedisce" Tucidide

La piazza principale del paese era, nel mio ricordo di bambino, immensa, si poggiava ai piedi del Monte Linas e la vedevo sempre come un lago sul quale affluivano piccole e grandi strade. Io ero lì, assieme a Giuseppe, aspettavamo un amico per la consueta uscita pomeridiana. Non avevamo un orario o un punto preciso dove incontrarci, eppure, anche senza l'ausilio della tecnologia, ci trovavamo lo stesso: Antonello anche quella volta era spaventosamente in ritardo. Decidemmo allora di attenderlo in un punto più strategico, più comodo, con una visuale più diretta verso la zona da cui sarebbe dovuto arrivare. Ci poggiammo sul bordo della serranda abbassata dell'edicola, a quell'ora ancora chiusa, a parlare, non so di cosa. Mi sono sempre chiesto quali fossero i miei pensieri, i miei argomenti, i miei ragionamenti all'età di dieci anni. Trascorsi pochi minuti, un'ombra improvvisa e fulminea interruppe la carezza dei tiepidi raggi solari che rendevano cosi piacevole quel pomeriggio: non era una nuvola carica d'acqua e di elettricità, ma qualcosa di più minaccioso. Qualcuno ci afferrò con forza per le orecchie, quasi sollevandoci. Sorpresi e terrorizzati dall'improvvisa e inaudita violenza, restammo pietrificati dando la possibilità all'aggressore di spostare la sua presa sui polsi, che sembrava volesse spezzare. La visuale della piazza si restrinse, nell'arco di una frazione di secondo, a uno spazio indefinitamente piccolo, poco più di un metro cubo di terra e aria su cui si poggiavano e muovevano i corpi di tre esseri disperati. Tutto il resto, intorno a me, sparì nel buio più totale, si azzerarono i rumori e gli odori; era come se non esistesse più nulla, più nessuno: il mondo si era fermato. Sollevai gli occhi, probabilmente pieni di lacrime, lentamente, come se, aspettando un colpo finale, volessi implorare clemenza guardando in faccia l'aggressore. Ma le grosse mani continuarono a stringere i polsi, e la violenza aumentò, facendosi anche verbale: "Stavate cercando di aprire le serrande dell'edicola, vi ho colto con le mani nel sacco. Chiamo subito un vigile, vi faccio portare in caserma, passerete la vita in galera!". Un colpo letale sarebbe stata una violenza più indulgente, meno dolorosa. Improvvisamente il forte caldo del polso si attenuò, sentii mollare la presa e la grossa mano mi colpì in pieno volto con una mossa troppo veloce per i miei riflessi confusi. Caddi a terra stordito. Camminai carponi su pietre e cocci per qualche metro, accecato dalla paura, ferendomi mani e ginocchia. Scappai, noncurante della sorte del mio amico, verso casa, senza poi ricordare nulla del tragitto percorso: due chilometri di discesa che attraversava il paese. Corsi, come inseguito da belve feroci, con il cuore in gola, passando di fianco ai luoghi che ogni giorno attiravano la mia attenzione; luoghi misteriosi che destavano, alcuni paure, altri curiosità. Costeggiare il cimitero, quel giorno, sicuramente non mi fece alcun effetto. Solo di fronte a un pericolo concreto e reale ci accorgiamo di quanto siano insussistenti alcune paure della nostra mente. Non incontrai nessuno di conosciuto, forse corsi troppo veloce e mi ritrovai nell'uscio di casa senza sapere come.  Entrai di soppiatto, attento a non farmi notare e solo quando fui dentro la mia stanza mi sentii al sicuro, protetto da sguardi e domande. Mi rannicchiai in un angolo e piansi in silenzio; un pianto di rabbia e impotenza, di dolore e paura, un pianto senza fine che restò, per mia scelta, senza consolazione umana. Non raccontai niente a nessuno, la vergogna mi assaliva al solo pensiero e giustificai le ferite come causa di una caduta in corsa: è questo il disgustoso meccanismo che permette ad abusi e soprusi di restare nascosti e impuniti agevolandone la reiterazione.

La nostra casa, alla periferia del paese, situata allora nella linea di confine con la campagna, la notte sembrava attirasse suoni misteriosi; mio padre cercava di tranquillizzarmi dicendomi che erano solamente lamenti di animali e voci umane trascinate dal vento e amplificati dall'aria fresca e pulita che scivolava a valle dalla  montagna, ma io sapevo che in realtà quei lamenti sinistri appartenevano agli spiriti notturni che vagavano al calare delle tenebre. In quel periodo la notte per me fu croce e delizia: adoravo le stelle, erano sempre straordinariamente luminose, ci trascorrevo delle ore ad osservarle, a volte allungavo la mia piccola mano convinto che riuscissi a toccarle. In casa tutti pensavano che fossi il più coraggioso, ero l'unico che riuscisse, quando serviva qualche provvista, a scendere la notte in cantina senza nessuna paura. Così tutti credevano, in realtà volevo solo dimostrare a mio padre quanto fossi forte, ancora di più di fronte al rifiuto di un fratello maggiore terrorizzato. Cercavo sempre e in tutti i modi di nascondere la mia debolezza, la mia fragilità. Ero irresistibilmente attratto e al tempo stesso terrorizzato dagli spiriti della notte. Eppure un giorno, così come successe con “Selvatik”, un gatto selvatico della campagna vicina che nessuno credeva riuscissi a farmi amico, gli spiritelli della notte, figli degli spiriti cattivi, si avvicinarono a me. Per Selvatik ricordo che ci vollero diversi mesi solo per farlo scendere dal muro dove sempre più frequentemente si affacciava a curiosare ogni mio spostamento. Mio padre mi diceva di lasciar perdere, era un gatto inavvicinabile e sarebbe stato più giusto che stesse nel suo habitat, ma io restavo interi pomeriggi seduto sul cortile con qualcosa da mangiare in mano. Giorno dopo giorno conquistavo qualche centimetro, riducendo sempre di più la distanza che mi separava da lui e la diffidenza che lo separava da me. Succedeva spesso che dovessi ricominciare tutto daccapo perché un piccolo rumore improvviso lo allontanava di parecchi metri, ma i nostri esseri erano oramai destinati ad avvicinarsi e a vivere quello scorcio di vita insieme avendo bisogno l'uno dell'altro. Non ci fu gioia più grande del giorno in cui si avvicinò, odorò il cibo ma non lo mangiò. Non mi permise da subito di toccarlo e non perse mai del tutto la diffidenza intrinseca al suo essere: si avvicinava solo quando ero solo, altrimenti restava ad osservarmi da lontano, sopra il muro alto alcuni metri che separava il mio cortile dal suo mondo. Successe la stessa cosa con gli spiritelli, ogni notte si fermavano a curiosare da oltre il muro. Sembrava che fossero affascinati da me, così come io lo fui da loro. Capita così anche tra esseri umani, ci sono persone che ci attirano, che ci incuriosiscono; a volte veniamo attratti in modo inspiegabile, come se riuscissimo a percepire la loro aura, a volte più semplicemente veniamo conquistati dal loro aspetto, dai loro modi di fare. Chissà dove risiede quella forza misteriosa che attrae due esseri come calamita.
La mia offerta per gli spiritelli non fu il cibo, ma le parole; iniziai raccontando a voce alta le mie storie da bambino che scrivevo nei quaderni di scuola; leggevo talmente assorto che da un giorno all'altro li ritrovai in cerchio intorno a me e, da allora, non ci fu notte, eccetto quando pioveva o tirava vento, che passai senza la loro compagnia.

Quel giorno aspettai con ansia l'oscurità della notte, con la rabbia che mi faceva ribollire il sangue. Fremevo nell'attesa… eccola, finalmente, la tanto agognata notte, dove tutto si trasforma, dove buio e silenzio assumono un enorme potere, dove pensieri e fantasia non hanno limiti: sfondano le pareti limitatorie e scappano, corrono via, espandendosi in ogni direzione senza fare del male a nessuno. Ma per me non era così, io volevo fare male a qualcuno, ogni volta che subivo o assistevo ad un abuso aspettavo quel momento per concretizzare la mia vendetta, contro chiunque perpetuasse violenza su esseri indifesi. A quell'epoca non leggevo ancora i fumetti - quelli che raccontavano le gesta eroiche dei paladini della giustizia - per vendicarmi con la fantasia, calandomi nei loro panni. Era giunta l'ora e la rabbia accumulata aveva raggiunto il massimo livello, spinta in alto dall'insofferenza per non essere riuscito a reagire: non sopportavo di essere rimasto inerme, in balia di un bruto, di un ossesso posseduto da chissà quale demone. Mi coricai nel mio letto, mi misi scrupolosamente in posizione: supino, come se fossi morto. Spalancai gli occhi per non correre il rischio d'esser rapito dal sonno, fissai un punto fermo sul soffitto e chiamai a raccolta i miei amici spiritelli. Non impiegarono tanto ad arrivare. Entrarono in tutta tranquillità, senza fare rumore, timidamente, nonostante fossero immortali e infinitamente potenti. La stanza era buia, forse leggermente illuminata da una frazione di luna. Si posizionarono in cerchio intorno al mio letto. Io riuscivo, in una sorta di percezione extrasensoriale, ad essere tra loro con il mio spirito che, sollevandosi solo con il busto senza mai staccarsi totalmente dal corpo, si sedeva al centro dell'incontro e trasmetteva, senza proferire parola, le immagini dell'accaduto. Alla fine, uno dopo l'altro, gli spiritelli si accomiatavano, in maniera ordinata, attraversando il mio corpo come se volessero vivere più profondamente il dramma, come se volessero raccogliere informazioni più dettagliate. Il mio spirito ricadeva lentamente all'indietro sino a rientrare totalmente all'interno del corpo e mi addormentavo istantaneamente in un sonno profondo, consolatorio e liberatorio.
Il giorno dopo mi svegliavo già con la curiosità di sapere cosa fosse successo, non vedevo l'ora di verificarne il risultato. A scuola non pensavo ad altro; suonata la campanella correvo a casa, pranzavo velocissimo e risalivo verso la piazza. Restai ancora una volta sorpreso. La mia ingenuità non prendeva nemmeno in considerazione che si potesse trattare di una semplice coincidenza: l'edicola era chiusa e restò con le serrande abbassate per ben quattro giorni. Non mi era dato sapere in cosa consistesse l'azione punitiva, ma forse nemmeno mi interessava, oltretutto ero troppo piccolo per cercare di scoprire cosa fosse realmente successo, indagando sulla vita privata altrui. Andai via, mi immagino con le mani nelle tasche, lasciandomi dietro, come un pistolero ferito che vince un duello dopo esser stato colpito con l'inganno, la scena dell'accaduto.
Credo comunque che mi consolasse sapere, ogni volta che i miei occhi assistevano ad un abuso, che ci fosse qualcuno in grado di dare una lezione agli aggressori, vendicando chi non poteva difendersi: piccoli esseri che approcciano alla vita con ingenuità, inconsapevoli delle insidie e dei pericoli che provengono proprio da coloro che vedono, guardandoli con la testa all'insù, dal basso verso l'alto, come i garanti della loro sicurezza capaci di dispensare amore infinito e protezione assoluta.

Gli unici ricordi nitidi e ricorrenti della mia infanzia sono legati ad abusi e soprusi a cui ho assistito impotente, direttamente e indirettamente, in tutti i contesti sociali: nelle strade, nelle scuole, nelle palestre, negli oratori, nelle case. Non sopportavo gli atti di bullismo tra coetanei, questa sorta di prevaricazione violenta mi risultava estranea, inumana e incomprensibile, ma erano per me ancora più assurde, insopportabili ed innaturali, le violenze fisiche e psicologiche di genitori verso i propri figli, o di insegnanti sui loro alunni; erano ancora oscuri, per me, i meccanismi che portavano questi adulti a comportamenti bestiali. E questo “non capire” mi costringeva a provare odio e ostilità nei loro confronti. Solo qualche anno dopo fui assalito dall'idea che quelle persone rappresentavano gli anelli di una catena senza fine, in cui vittime e aggressori sono legati da un destino comune: essere prima vittime degli aggressori per poi diventare a loro volta aggressori di nuove vittime, poiché subire violenza spesso porta a commettere violenza. Ma non sempre va così, ci sono epiloghi ancora più tragici: a volte quella catena si spezza improvvisamente, senza avvisaglia. Non tutti riescono a sopportare il peso di quelle macchie indelebili stampate sull'animo. Ho sempre nel cuore un mio caro amico d'infanzia che iniziò a riversare le terribili violenze subite in casa su piccoli animali che torturava e uccideva. Finì con il commettere lo stesso scempio su se stesso: dopo una vita di sofferenza mise fine alla propria, suicidandosi.
La violenza su un essere vivente che non ha ancora sviluppato le proprie difese è devastante, come un virus sconosciuto che subdolamente penetra all'interno del nostro corpo e attacca, trovando le difese impreparate e creando danni irreversibili. I bambini subiscono gli abusi senza urlare, ma quell'urlo inesploso riecheggia dentro per l'eternità, distruggendo alla base gli elementi fondamentali e fondanti per una vita serena.

Selvatik improvvisamente sparì, sapevo per certo che era stato catturato e mangiato dai vicini di casa: posizionavano sistematicamente le trappole dentro il loro cortile. Mi sono sempre sentito in colpa, forse aveva ragione mio padre, sarebbe dovuto restare nel suo mondo selvatico e diffidente, lontano dagli esseri umani.

Gli spiritelli della giustizia svanirono nel nulla pochi anni dopo, vennero lentamente riassorbiti dal buio della notte. Continuai comunque a sentire, sino a quando abitai in quella casa, i loro lamenti.

I bambini di oggi, come quelli di allora, continuano a subire abusi, soprusi e maltrattamenti, nelle strade, nelle chiese, nelle case e nelle scuole, soffrono terribilmente tenendo la bocca chiusa. Non accorre nessuno in loro aiuto, perché nessun adulto sa più leggere nei loro occhi. Quando ci parlano, quando ci guardano, invece che abbassare la testa, dovremmo provare ad inginocchiarci, un gesto apparentemente insignificante che ci permetterebbe di fare un piccolo passo verso la loro dimensione e, magari, di capirli di più. 

Avevo fatto credere a Selvatik che il mondo umano fosse sicuro, gli avevo insegnato a fidarsi di me e di conseguenza di tutti i miei simili. Lo avevo, egoisticamente, inconsapevolmente illuso facendogli perdere la sua innata diffidenza e portandolo direttamente nella trappola mortale della cattiveria umana.

Tucidide scriveva che "il male non è soltanto di chi lo fa: è anche di chi, potendo impedire che lo si faccia, non lo impedisce". I bambini di oggi crescono e vivono in un mondo apparentemente sicuro, questo è quello che gli facciamo credere, non sospettano minimamente che le insidie più pericolose sono quelle che provengono dai loro simili.
Ognuno di noi ha un importante responsabilità sociale, educativa e di controllo, necessaria per spezzare definitivamente quella terribile concatenazione di abusi e soprusi che altrimenti non avrà mai fine.

venerdì 2 ottobre 2009

Piacer figlio d'affanno


"Pene tu spargi a larga mano; il duolo spontaneo sorge: e di piacer, quel tanto che per mostro e miracolo talvolta nasce d'affanno, è gran guadagno"  G. Leopardi




Settembre se n'è andato cedendo dolcemente il passo al mese di ottobre. Mi trovo qua, a respirare aria di stagione incerta, ad osservare il tempo che passa e a cercare invano sensazioni che non proverò più. Cammino per le strade del mio paese, manca qualcosa. Da molti anni a questa parte, non sento più il denso odore di mosto, non vedo più i cancelli dei cortili spalancati, pronti ad accogliere i piccoli automezzi stracarichi d'Uva. Per le strade più nessuna scia di acini schiacciati, caduti durante il trasporto; ora, i grandi camion diretti alle cantine, non ne perdono neanche uno. Mi manca la vendemmia, quella da vedere, da respirare. In questo periodo dell'anno l'aria ne era intrisa. Mi mancano gli odori intensi di quei giorni dai colori tenui, di stagioni  intrecciate. La vendemmia non è più quella sensazione piena e intensa di bambini che corrono e giocano tra i filari, incuranti della presenza insistente di api, vespe, calabroni, forbicine e ragni, mentre gli adulti, curvi sulle piante della vite, raccolgono grappoli. Non è più le sere di tavole imbandite di carne, pane e formaggio,  in cui ci si ritrovava a condividere un traguardo, a misurane i risultati, a scaricare la stanchezza della raccolta e la tensione di un intero anno, ridendo, mangiando e bevendo vino, sino allo stordimento. Questa vendemmia, poetica e passionale, non esiste quasi più; una candela accesa da secoli, ridotta oramai a lumicino. Eppure, almeno per gli interessati, per gli "addetti ai lavori" non è mai stata un gioco: pochi giorni di duro e intenso lavoro che chiamava a raccolta familiari e amici, a suggello di un anno intero di fatica, attese e sacrifici; di ansie e preoccupazioni; di speranze, di umili preghiere bisbigliate prima di addormentarsi, nel silenzioso buio della notte, rivolte al buon Dio perché riconoscesse il giusto merito e concedesse manforte per superare difficoltà e immunità da malattie e grandine. C'era un diffuso sentire comune, un senso di solidarietà genuina e sincera che portava tutti gli abitanti del paese a preoccuparsi per la sorte delle vigne dopo una grandinata o per l'assenza prolungata di piogge. Ora nessuno vuole più avere a che fare con la terra, nessuno vuole più lavorarla. Improvvisamente tutto è diventato difficile, insostenibile. Non conviene più fare il vino in casa: costa troppo e richiede sforzi che gli anziani non possono più sostenere e che le nuove generazioni non vogliono e non sono state educate ad affrontare.

Maledetta malinconia, sempre in agguato, sempre pronta a colpire violentemente i miei sensi per tutte le cose che ho vissuto e che non saranno più. Eppure ho imparato a conoscere il mondo quel tanto che basta per capire la velocità con cui cambia, a sperimentarne direttamente i ritmi forsennati che portano, come la corrente incontrastabile di un immenso fiume, verso un' unica direzione. Mi sento infinitamente stupido a voler ancora credere che il cuore abbia mai avuto un ruolo determinante nello sviluppo della società umana, nella sua evoluzione. Il cammino dell'uomo segue un'altra strada, meno impegnativa e tortuosa: un modello di "benessere a tutti i costi", tecnologicamente avanzato, che porti, a grandi passi, ad un mondo comodo, agiato e sicuro, ma allo stesso tempo, cinico, distaccato e asettico.

Ho abbondantemente superato quella fase d'immaturità che mi portava alla convinzione di riuscire a cambiare ciò che mi stava attorno ed ora assisto, trascinato dalla corrente, ma pur sempre pronto a combattere e a far valere il mio dissenso, all'avvento di un mondo fuori dalla mia misura.
Il sentimento che provo per le cose che non ci sono più ha un'essenza ben più profonda e radicata della semplice malinconia per l'assenza di quelle immagini, di quei suoni e di quegli odori: è una cupa  preoccupazione, un senso di vuoto amaro, dovuto al crescente abbandono della cultura del sacrificio.
Ci stiamo ingannando e inganniamo i nostri figli, educandoli ad avere tutto senza fare niente, seguendo ciecamente istruzioni e modelli di vita dettati da una società consumistica, sminuendo e stravolgendo regole fondamentali come quella della partita doppia, in cui la cotropartita dell'avere non è più il dare, ma il pretendere. Li stiamo proteggendo dalla parte dura e faticosa di questa vita, per evitare che patiscano sofferenze e afflizioni; stiamo insegnando loro ad aggirare gli ostacoli, piuttosto che ad affrontarli e superarli.

Mi chiedo per quanto ancora dobbiamo far credere alle nuove generazioni, con questo modello di vita, che l'epoca a venire sarà ancora più opulenta, facile e comoda da vivere di quella che stiamo vivendo; per quanto ancora dobbiamo far finta di non vedere il male che ci gravita attorno e pensare di esserne immuni; per quanto ancora dobbiamo essere partecipi, a tutti gli effetti, di un sistema globale iniquo, insostenibile, basato sullo sfruttamento incontrollato delle  risorse e degli esseri viventi;  per quanto ancora dobbiamo sottovalutare un'evidente lungo e lento declino, ignorando le avvisaglie di un sistema al tracollo che s'impegna oltre quello che possiede nell'intento di rimandare, purtroppo aggravandolo, un destino ormai segnato.

E ancora mi chiedo come sia possibile che questo modello di vita ci adombri la mente al punto da farci abbassare la guardia, da portarci a dimenticare che: è la paura che rafforza la sicurezza; sono la sofferenza e il sacrificio che ci permettono di apprezzare appieno la vita; è la fame a farci gustare con piacere il cibo; è la fatica a rendere più intenso il riposo; è l'impegno a rendere gratificante ciò che si produce, ciò che si crea. Ho paura che i figli di questa società non saranno uomini temprati e determinati, ma esseri fragili e disorientati che non conoscono il valore delle cose, incapaci non solo di affrontare le battaglie di una vita sempre più difficile, ma di saper usare le sconfitte come esperienza e rafforzamento, ai fini di una pronta e orgogliosa rivincita. Se questo è quanto bisogna pagare per il sogno di una vita più sicura e longeva, è davvero un prezzo troppo alto per le generazioni che verranno, con la certezza che, prima o poi, si trovino ad affrontare un mondo che richiederà indietro tutto ciò che le generazioni passate hanno indebitamente preso.

A mio Zio Mario, baluardo del vino fatto in casa, che non si è mai risparmiato e resiste agli acciacchi di una vita dura, sempre a stretto e intimo contatto con la Madre Terra; a Lui che mi ha insegnato, semplicemente osservandolo lavorare, bere e mangiare, la sacralità di ogni cosa. Perché non diventi privilegio di pochi, conoscere il pieno, autentico e profondo gusto di ciò che ci offre la vita.

venerdì 9 gennaio 2009

Di padre in figlio

















"...che lo vogliamo o meno, noi siamo i nostri genitori"

Finita la scuola avevo a disposizione solo due, tre settimane per godermi le vacanze a tempo pieno. Trascorso quel termine mi portava ogni giorno a lavoro con lui. Io mi svegliavo sempre qualche minuto prima che entrasse in camera per chiamarmi, ma continuavo a far finta di dormire e speravo, pregavo, come se stessero per portarmi al patibolo, in una grazia dell'ultimo istante, in uno di quei numerosissimi atti di pietà e di generosità che contrassegnavano la sua giornata. Mi giravo in tutta fretta, coricato di spalle alla porta, coprendomi sino al viso per paura che scoprisse la mia finzione. Ascoltavo i suoi passi arrivare, la porta aprirsi. La sua grossa mano si poggiava lievemente sulla mia spalla, scuotendola con dolcezza. A quel punto mi restava da giocare l'ultima carta: non rispondere alla chiamata, cercare di intenerirlo facendogli credere di essere ancora immerso in un sonno profondo. La speranza si infrangeva nel momento in cui la sua voce sentenziava la condanna definitiva e inappellabile: "Andiamo!!!". Forse sbagliavo tecnica, magari sarebbe stato sufficiente dirgli: "Papà, oggi non ce la faccio, mi lasci a casa?". Non glielo chiesi mai, forse non avevo mai nemmeno pensato di farlo.

Nonostante il trauma fosse solo iniziale, smorzato prontamente dall'impatto fisico con l'aria carica di salsedine, fresca e penetrante del primo mattino, ogni giorno, per tre anni, si ripeteva la stessa identica storia. Il viaggio in macchina durava circa mezz'ora; arco di tempo nel quale ogni suo tentativo di dialogo cadeva inesorabilmente nel vuoto creato dal mio silenzio. Io mi preoccupavo solamente di dormire ancora un po’, anche se ogni sforzo in questo senso era del tutto vano: il sonno si era già dissolto e i sogni si erano oramai trasformati in pensieri acquerellati, confusi e disordinati, che si fondevano coi colori dell'alba prima, dell'aurora poi e infine dei primi raggi del sole che segnava puntualmente l'arrivo a destinazione.

A lavoro mi erano stati assegnati compiti precisi, sotto l'iniziale sorveglianza di un responsabile. Lo spazio dietro il bancone era piccolo, ma sufficiente per lavorare comodamente in due.
Gli orari del servizio erano sempre gli stessi: colazioni, break di mezza mattina e caffè dopo pranzo. Per il resto della giornata restavo solo: mi occupavo delle pulizie, del riordino, preparavo gli snack e ricaricavo i frigoriferi. Ogni tanto passava a controllare che andasse tutto per il verso giusto, mi rimproverava per ciò che non era stato fatto bene. Poi mi guardava con tenerezza, mi dava una carezza sui cappelli e tornava al suo lavoro; ci separava una grandissima sala mensa, vuota sino all'ora di pranzo.

”Chissà cosa pensava!” mi chiedo costantemente. Forse che avrebbe dovuto lasciarmi a casa a riposare e a divertirmi, che ero troppo piccolo per iniziarmi al lavoro. Forse era stretto da quella morsa, ancora più forte perché di grande responsabilità, che porta a non essere mai sicuri se quello che si sta facendo sia giusto o sbagliato. Combatteva incessantemente, forse inconsapevolmente, contro se stesso, contro la forza oscura dei propri geni che gli imponevano precisi impulsi decisionali per salvaguardare e migliorare la sua stirpe. Combatteva contro il forte richiamo di quell'amore "sbagliato" per i figli, quello che domina le società opulente, quello che porta i genitori ad essere iperprotettivi, a cercare in tutti i modi di non far mancare niente alla propria prole e a sentirsi perennemente in colpa se non si riesce a soddisfarne ogni desiderio. Combatteva, consapevole dell'evoluzione, del mondo che cambiava, contro le proprie credenze e i propri pregiudizi, non conoscendone esattamente contorni e confini. Combatteva la paura di non riuscire a dare la giusta educazione, il giusto indirizzo professionale, la giusta posizione sociale ai suoi ragazzi. Per un uomo che crea da solo e dal niente un piccolo impero, credo sia naturale nutrire attese importanti per i propri figli. Lui, le sue aspettative, le basava sull'importanza del lavoro come elemento determinante nel contesto sociale in cui si vive. Non era solo un fattore genetico: c'era una grossa componente culturale, sentita fortemente da tutti, in quel periodo, che lo portava a mettere sempre il lavoro al di sopra e prima di ogni altra cosa.
Cercava di carpire i segreti dei miei sogni, gelosamente custoditi, nella speranza di aiutarmi a trovare la soluzione per coltivare le mie passioni, per insegnarmi a non mollare mai.

Mio padre era un imprenditore; in realtà, la sua grande passione e vera professione era fare il cuoco. Un cuoco all'antica, figlio di un’ epoca in cui non si sprecava nulla, in cui gli alimenti avevano un valore intrinseco e assoluto in quanto frutto di sacrificio e sudore. Aveva molta fantasia e la capacità di creare con pochi e poveri alimenti delle squisite e sostanziose pietanze. Mio padre scriveva fiumi di parole e anche poesie, senza alcuna pretesa di crederle veramente tali. Annotava pensieri su qualsiasi materiale accogliesse l'inchiostro della sua biro: tovaglioli, fazzolettini, pezzi di cartone strappati alle derrate alimentari, fogli che trovava per il suo cammino, carta igienica. Se gli veniva in mente qualcosa da scrivere, lo faceva senza mettersi il problema su cosa stesse scrivendo, su chi avesse davanti e su quanto fosse importante ciò che stava facendo in quel momento. Da suo padre, su "launeri" del paese (lo stagnaro, mestiere di chi lavorava i metalli), ereditò la passione per il lavoro e il legame forte e indissolubile per la terra e per la natura, che si trasformò poi in amore e desiderio infinito di riavvicinarsi a lei e viverci immerso.

Quel sogno restò solo un sogno, non gli fu concesso di realizzarlo. Se ne andò prima, sicuramente con l'amaro in bocca. Se ne andò prima che si risolvesse in modo naturale quel conflitto generazionale con un figlio "eversivo", così uguale a lui ma così smanioso di apparire diverso. Quell'esperienza sembra non avermi insegnato nulla per evitare che ciò si ripetesse, con le stesse identiche modalità, seppure con variabili differenti, tra me e mio figlio.

Al di là di quello che ci permette di fare la vita, al di là di quanta forza di volontà mettiamo nel portare avanti quello che sentiamo, per cambiare quello che non ci piace, noi, che lo vogliamo o meno, siamo i nostri genitori. Da loro ereditiamo, a volte detestandoli, caratteri somatici, pregi e difetti, modi di fare e passioni. Io mi sono ritrovato a seguire le stesse orme e a coltivare gli stessi interessi che hanno contrassegnato la vita di mio padre e resto ancora sorpreso nel vedere mio figlio attratto dalle stesse passioni che animano il mio essere: la cucina, il disegno, la musica, la scrittura, la lettura, la natura......

Di padre in figlio viene tramandato un libro su cui ci ritroviamo a scrivere, a continuare la storia, lunga migliaia di anni, del nostro ramo genealogico. Un libro che risale agli albori, dove possiamo leggere, quando ci è consentito, solo delle ultime generazioni, perché i contenuti si cancellano man mano che il tempo avanza. Nello stesso libro, dove attualmente scrivo e dove ci sono le pagine, oramai evanescenti, scritte da mio padre, ora scrive anche mio figlio.

Tutto si ripete, spirito e materia, con una sequenza di fatti impressionante e, in questo caso, senza salti generazionali. Per ironia della sorte rivivo, con uno scambio di ruoli, la sofferenza del conflitto con mio padre e pago, giustamente con la stessa moneta, il dolore causatogli. Tutto questo con un forte sentimento di frustrazione e impotenza, per aver fallito per ben due volte la gestione di un rapporto umano fondamentale, quello tra padre e figlio; prima da figlio verso uno splendido padre, ora da padre verso uno splendido figlio.

Antonia e il Lentisco

“Sarò anch'io come il lentischio, che solo per gli umili che ne conoscono il segreto nasconde nelle su...