mercoledì 10 agosto 2011

Cronaca di una rapina annunciata


Colui che non può contare su alcuna musica dentro di sé, e non si lascia intenerire dall'armonia concorde di suoni dolcemente modulati, è pronto al tradimento, agli inganni e alla rapina: i moti dell'animo suo sono oscuri come la notte, e i suoi affetti tenebrosi come l'Erebo" William Shakespeare

La spranga di ferro è vicina, cinquanta forse sessanta centimetri dalla mia mano, è una distanza comunque troppo elevata per arrivarci integro. Non c'è il tempo per pensarci su, ma non serve ragionare per capire che non avrei lo spazio sufficiente nemmeno per afferrarla, figuriamoci sferrare un colpo letale. C'è anche il coltello a serramanico, lo vedo con la coda dell’occhio, l’avevo sistemato qualche anno fa, viste le disavventure precedenti, accanto alla cassa in modo da poterlo afferrare velocemente nel caso di un attacco frontale, ma è ancora più distante ed è anche chiuso; dovrei prima arrivarci e poi aprirlo. Mi servirebbe fermare il tempo per dare una diversa piega a questo dramma, consapevole del rischio di peggiorare ulteriormente le cose. In realtà il tempo è fermo, anzi in questo momento non esiste proprio, sono sospeso in aria, poggiato sul nulla: è come se non respirassi, come se il cuore non battesse più; non sento gli odori e i rumori, non vedo i colori. Tutto si svolge in un contesto irreale, all’interno di una bolla asettica, una sorta di sogno piatto del quale non si ricorda niente se non piccolissimi frammenti. E’ curioso che non provi nessun timore, o forse la paura, in situazioni del genere, si manifesta proprio in questo modo. Eppure ho già vissuto queste esperienze sinistre, purtroppo più di una volta, ma solo ora capisco che tutto ciò è una normale reazione del cervello: si perde ogni percezione, quasi come se il tempo e lo spazio si fondessero in un’unica entità sconosciuta ai sensi, alla ragione. Anche se ogni volta è una storia a se. La volta precedente, circa quindici anni fa, fui assalito per strada, da due, forse tre individui; ero in macchina, fermo a un semaforo in attesa che scattasse il verde. Mi tramortirono, presumibilmente con un “taser”, una pistola elettrica, e mi portarono via la valigetta con l’incasso del fine settimana, un bel gruzzoletto. Un mese d’ospedale e un danno materiale molto pesante, ma questa è un’altra storia.
Loro sicuramente non stanno provando le mie stesse sensazioni, anche se sembra che abbiano più paura di quanta possa provarne io. Di sicuro hanno molta fretta, l’obiettivo è arraffare il più che possono nel minor tempo possibile, e per farlo ogni secondo è prezioso. Anche se avessero pianificato al dettaglio, credo sappiano molto bene che le variabili sono troppe per poterle mettere tutte in conto. La pistola non può nulla contro qualcosa che va storto, ma, purtroppo, sembra proprio che a loro oggi vada tutto per il verso giusto. Chissà, magari non hanno neppure abbozzato un piano.
Sono le 23:40, il pizzaiolo è andato via da qualche minuto. Erano sicuramente appostati fuori aspettando che uscisse, una persona in meno da controllare. Alessio si è appena cambiato, ha salutato e sta per raggiungere l’uscita sul retro. Se li trova davanti, proprio a pochi passi dalla porta, lo obbligano a tornare indietro e gli impongono di buttarsi a terra. Ora è prono sul pavimento mentre Andrea, il più distante dalla scena, è di spalle; imperterrito continua a lavare stoviglie, come se non sentisse, come se niente succedesse. Per un istante ho pensato stesse pianificando qualcosa, ma neanche il tempo di elaborare questo pensiero che non lo vedo più, sparisce nel nulla, allertando immediatamente uno dei due rapinatori che comincia a urlare come un forsennato “dov’è l'altro?”. Si distrae persino dall’obiettivo principale, la cassa, per capire quale diavoleria ci fosse dietro una sparizione così istantanea, giacché da quella posizione l’unica via d’uscita verso l’esterno era lo scarico del lavandino. Nemmeno Flash sarebbe riuscito a fare meglio. Andrea non aveva nessun piano se non quello di salvarsi, giustamente, la pelle. Un anfratto nel sottobanco l’ha attirato come una gigantesca calamita attira un scheggia di ferro. Lo immagino lì sotto, pregando che non lo trovi nessuno, con la stessa intensità di un bambino che gioca a nascondino. Anch’io spero che non lo trovino. Andrea è un folle, non mi sorprenderei se uscisse di corsa urlando “Chiesa, salvo tutti!!!”. 
Loro sono in due, completamente coperti da indumenti scuri, dalla testa ai piedi. Dai piccolissimi fori sul cappuccio sono visibili solo gli occhi. Ci sanno fare, o perlomeno non è la prima volta che lo fanno. Uno è alto e snello, ha un modo di muoversi molto particolare, inconfondibile, riceve gli ordini ma li esegue troppo lentamente, sembra impacciato; ho l’impressione che abbia paura d’essere riconosciuto. L’altro è alto e robusto, con la pancia pronunciata; parla solo lui, nessuna inflessione dialettale che possa far capire la provenienza geografica. Ha la pistola in mano e impartisce gli ordini che, puntualmente, esegue da solo. Mi ha colto alla sprovvista, arrivando alle mie spalle con passo velocissimo, non permettendomi di contestualizzare nell’immediato ciò che stava accadendo e di conseguenza azzerando tutte le possibilità di reazione. "BUTTATI A TERRA, TI FACCIO UN BUCO IN TESTA, TI AMMAZZO!". La pistola poggiata sulla nuca fa un certo effetto. Il dito è sul grilletto; tengo le mani in vista e mi muovo lentamente, esattamente dove lui vuole che vada. Basta una mossa sbagliata per far partire un colpo. Sempre che sia una pistola vera, ma non è forse il momento adatto per scoprirlo, preferisco tenermi il dubbio.
Mi muovo lentamente e faccio quasi tutto ciò che mi viene chiesto, ma non mi butto a terra e non la smetto di guardarlo negli occhi: “TI HO DETTO DI NON GUARDARMI, BUTTATI A TERRA, TI BUCO LA TESTA!” . Ora però non mi piego al suo volere, nonostante la pressione della pistola, poggiata con forza tra il pomo d’adamo e lo sterno, mi spinga sempre di più verso il basso. Non sento nemmeno il dolore. E’ impressionante quanto cambi la percezione del dolore in determinate situazioni. Non ubbidisco, ma senza rendermene conto, involontariamente, come se inconsciamente tentassi di mantenere un briciolo di controllo su una situazione che non ha assolutamente più niente sotto il mio controllo. Eppure tutto si sta svolgendo nel mio territorio, nel luogo dove vivo buona parte delle mie giornate. Sembra non finire più, la lancetta dei secondi sicuramente si muove come se segnasse le ore, mentre al di fuori della frattura spazio temporale in cui sono precipitato la vita prosegue regolarmente. Stranamente nel locale non entra più nessuno, eppure fuori ci sono oltre cinquanta clienti che non si accorgono di nulla; persino i telefoni, che solitamente trillano sino e oltre mezzanotte, hanno smesso di squillare. Mi sento solo. Sono solo! In un tentativo disperato di uscire da quella gabbia invisibile mi chiedo cosa posso fare, ma la risposta è attinente allo svolgimento della situazione e mi viene in mente nel momento stesso in cui ho formulato la domanda, anzi forse ancora prima: “Non posso e non devo fare assolutamente niente. Devo stare tranquillo, tutto volge a termine, a breve questa brutta storia sarà finita”. Sta rapidamente scemando anche l'idea di un’ipotetica reazione, mi sto rassegnando al fatto di non poter fare niente. Li guardo ancora una volta negli occhi prima di abbassare definitivamente il capo. Mi rendo conto che in questo modo sto permettendo loro di fare tutto ciò che vogliono. Continuano, però, a tenermi sempre a debita distanza dalla mia postazione, in una posizione senza nessun appoggio, senza nessun appiglio. Così facendo non mi permettono di ritrovare il punto di riferimento, psicologico più che materiale, che ho perso dal momento in cui sono arrivati, chissà se questo loro lo sanno. DI sicuro sanno che è rischioso farmi avvicinare al piano di lavoro, nasconde troppe insidie, potrei, con una sola mossa, accedere a un allarme o afferrare un’arma, anche perché con quei piccoli buchi nei passamontagna la visuale è minima.
La voce del più grosso tuona: “COME SI APRE LA CASSA!”. Cerco di avvicinarmi per esaudire la richiesta, ma mi ritrovo la pistola puntata tra gli occhi e con violenza vengo strattonato per ritornare al posto assegnato. “STAI FERMO, NON MUOVERTI” e rivolgendosi ad Alessio “VIENI TU, APRILA TU”. L’idea che si stesse chiamando in causa qualcun altro mi spinge a una reazione improvvisa e determinata, anch’io ora alzo la voce: POSSO APRIRLA SOLO IO!” “LASCIATELO STARE. ALESSIO, STAI FERMO DOVE SEI” Senza aspettare il loro consenso m’inginocchio per accedere al tasto nascosto di apertura manuale, con i loro occhi puntati addosso come fossero sensori e detonatori allo stesso tempo. Infilo la mano sotto la cassa, ora ho il coltello vicinissimo, a un solo centimetro dalle dita, una frazione di secondo per decidere, chiudo gli occhi, ma continuo a vedere come se fossero aperti. La rassegnazione e la paura prevalgono: apro il cassetto, mi sollevo in piedi, lentamente ritorno al mio posto, definitivamente rassegnato. Tolgono dal nulla una busta della spazzatura di plastica nera, la aprono  e ci rovesciano dentro tutto il contenuto del cassetto. Assisto impotente e impietrito allo scempio: iene che si avventano sulla carcassa di un animale morto, strappando, tirando a se il più che possono prima di essere scoperte. Hanno trovato un tesoro, molto di più di quello che si aspettavano. La fortuna è con loro: capita rarissimamente – una, al massimo due volte l’anno - di avere tutta quella liquidità in cassa; per una serie di coincidenze oggi c’è. D’altronde, nel gioco delle parti, la fortuna di uno è spesso l'inevitabile conseguenza di un errore dell’altro. Portano via tutto: le banconote, i buoni pasto e le monete più piccole. Sta finendo l’incubo, ora andranno via, ma la mia mente, senza che gliene faccia esplicita richiesta, non ci sta. C’è il momento giusto per ogni cosa. Che la buona sorte abbia deciso di stare dalla loro parte lo devo accettare, ma sino a un certo punto. Il mondo è dominato dal caso, ma io ho il potere, così come lo hanno avuto loro sino ad ora, di non lasciare che le cose vadano nella direzione in cui stanno andando, nella direzione in cui loro hanno deciso. La rassegnazione si sta trasformando in riscossa, la paura in rabbia. Chiudo forte i pugni e stringo i denti: devo solo aspettare che mi voltino le spalle, prendere al volo le chiavi della macchina, il cellulare e lanciarmi all’inseguimento. In quei pochi istanti individuo le posizioni di tutto ciò che mi servirà, visualizzo mentalmente il parcheggio della macchina e determino tutte le probabili vie di fuga e le varie possibilità di inseguimento. Penso anche all’eventualità di trovarmeli davanti alla macchina mentre scappano e sono consapevole che il sentimento di disprezzo e di amarezza che sto provando ora non lascerebbe lo spazio a nessuna pietà. Ma forse è ancora troppo presto per pianificare, non è ancora finito, manca la sorpresa finale. Non paghi della razzia, afferrano con mani ingorde il telefono palmare accanto alla cassa e poi, strappando con violenza i fili, il pc portatile. Un’ultima richiesta prima di andare via, come se mi avessero letto nel pensiero: “DAMMI LE CHIAVI DELLA MACCHINA”. Con la coda dell’occhio guardo verso il muro, dove sono appese tutte le chiavi, ci sono di tutt’e tre le autovetture. Allungo la mano, prendo quelle meno utili e spero che non si accorgano delle altre due. Non si accorgono, è fatta! Hanno lasciato le chiavi giuste e non si sono accorti dell’altro telefono cellulare. Io sono pronto, sento il mio cuore battere fortissimo.
La mia sensazione iniziale non era errata, ci sanno fare. Sanno benissimo cosa stanno facendo e soprattutto come lo devono fare. Sanno perfettamente che sarebbe stata una leggerezza imperdonabile voltare le spalle a colui cui hanno appena perpetrato un abuso: mi colpiscono improvvisamente con il calcio della pistola, violentemente allo zigomo, facendomi perdere i sensi. Stramazzo al suolo come uno straccio zuppo d’acqua. Resto a terra, non so per quanto tempo, non ricordo niente. Il nulla più assoluto è padrone del mio corpo e della mia anima. Sì, proprio il nulla. Se il colpo fosse stato mortale, non avrei avuto il tempo di rivolgere il mio ultimo pensiero alle persone che amo, mi sarei spento esattamente come si spegne un elettrodomestico che non funzionerà mai più. Che la morte mi prenda pure come vuole, ma non in questo modo. Con la faccia bagnata mi risveglio, circondato da mani che si agitano; visi deformati che si allontanano e avvicinano; occhi spalancati, spaventati; voci che chiamano un nome, il mio, come se stessero cercando di afferrare qualcuno per non farlo andare via. Mi parlano, mi fanno domande incomprensibili, sono confuso. Rinsavisco in brevissimo tempo e cerco di tranquillizzare le persone accorse, ma fingo, mi sento sprofondare nelle sabbie del risentimento, in un luogo buio e infido, irto di cocci di vetro che dilaniano l’animo.
Piango, un profondo pianto di liberazione. In corpo sento rabbia e dolore, frustrazione e sconforto, sconfitta e afflizione. Sono seduto in un angolo, non so nemmeno dove. C’è qualcuno accanto a me ora, sento respiri, mani poggiate sulle spalle, voci dolci e di conforto, carezze sul viso e infine abbracci. Questi i primi segni di un’enorme valanga d’affetto che mi ha improvvisamente sommerso senza lasciarmi il tempo di pensare, aiutandomi a sopportare tutto il male subito e, soprattutto abbandonare l’idea martellante di chiudere l’attività e costruirmi un altro lavoro, più sicuro e meno impegnativo.
Il mio cruccio è di aver permesso che accadesse tutto questo, in questo modo, abbassando la guardia nonostante abbia subito una decina di atti delittuosi e vili; di essermi cullato sul fatto che ormai da tre anni non succedevano più sinistri simili; di essermi sentito protetto da una sicurezza relativa, quella di avere sempre tante persone attorno. Queste disattenzioni ci hanno reso facile bersaglio di persone miserabili e senza scrupoli. Mi sento l’unico responsabile, non posso più commettere errori simili, mettendo a repentaglio anche la sicurezza altrui. Ci sono responsabilità dalle quali non ci si può sottrarre; scansandole o affrontandole con leggerezza porterebbero a conseguenze irreversibili, un prezzo troppo alto da pagare per chi lavora con onestà e rispetto delle regole.
Io vado avanti per la mia strada, come il cuore mi suggerisce, perché ho da prendermi cura di tante persone, dei miei collaboratori e dei miei preziosi clienti che sento come figli, amici, fratelli e genitori. E' questa l'unica mia ricchezza, non permetterò a nessuno di portarmela via. 

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